Perché il 22 dicembre potrebbe essere un giorno nero per l’Italia. Conto alla rovescia drammatico
Pochi giorni prima di Natale potrebbe finire la produzione di acciaio nel nostro Paese che smetterebbe, così, di essere di essere industrializzato
Il conto alla rovescia è drammatico. Il 22 dicembre potrebbe finire la produzione di acciaio in Italia. E per quello che è stato è tuttora è un Paese manifatturiero è, per l’appunto, qualcosa di drammatico. Senza acciaio un Paese industriale non è un Paese industriale.
L'assemblea dei soci di Acciaierie Italia
Succede che mercoledì scorso si è chiusa con un nuovo rinvio, l’ennesimo, l’assemblea dei soci di “Acciaierie d’Italia” - l’ex Ilva ed ex Italsider, che gestisce gli stabilimenti di Taranto, Genova Cornigliano, Novi Ligure, Racconigi e Marghera - che doveva approvare lo stanziamento di 300 milioni di euro necessari per proseguire l’attività.
Il punto è che anche nell’ultima assemblea è mancato l’accordo fra l’azionista di maggioranza, la multinazionale franco-indiana ArcelorMittal, che ha il 62 per cento delle quote, e l’azionista di minoranza Invitalia, la società che si occupa degli investimenti dello Stato soprattutto al Sud e che detiene il 38 per cento dell’azienda.
Il problema è che “Acciaierie d’Italia” ha di fatto bruciato tutti i fondi in cassa e rischia la chiusura. Un evento che sarebbe drammatico, visto che stiamo parlando dell’acciaieria più grande d’Europa che ha 10500 dipendenti, a cui si aggiunge tutto l’indotto.
Gli indiani non vogliono rifinanziare il progetto
Gli indiani non vogliono rifinanziare l’azienda e il sospetto, asseverato da Sergio Cofferati - nostro compagno di strada in questa storia e alla presentazione del film di Michele Riondino “Palazzina LAF”, che proprio dell’acciaieria di Taranto parla - è che in verità il possibile scopo della multinazionale possa essere semplicemente non quello di acquisire la più grande e potenzialmente efficiente acciaieria d’Europa, ma quello di togliere dal mercato il principale competitor.
Fra l’altro, anche se ipoteticamente arrivassero subito i 300 milioni immediatamente indispensabili per proseguire l’attività e saldare i debiti con i fornitori che hanno fatto sapere di non voler più lavorare con un cliente che non paga, servirebbero altri 1200 milioni per continuare l’attività, peraltro versati pro quota. E quindi in maggioranza i fondi dovrebbero arrivare dal socio indiano e dallo Stato solo in seconda battuta e con Invitalia che ha la possibilità di far salire la quota pubblica al 60 per cento. Ma il punto è che finora Ilva, prima e post Riva, cioè la proprietà di un privato, è stato un buco nero per le casse statali.
Altoforni spenti
Intanto, per un motivo o per l’altro, gli altoforni vengono spenti, lasciando il dubbio sulla loro riaccensione – non è come spegnere un interruttore della luce, per capirci – ma soprattutto impattando pesantemente sulla produzione dell’acciaio, che quest’anno avrebbe dovuto essere di sei milioni di tonnellate, il prossimo di otto e che probabilmente a fine 2023 non arriverà a tre milioni. Con una conseguenza occupazionale immediata: 5000 dei 10000 dipendenti sono in questo momento in cassa integrazione.
Questa situazione, a spiovere, impatta anche sugli altri impianti del gruppo, quelli che lavorano l’acciaio prodotto a Taranto, con lavorazioni oggi a freddo, su tutti Genova. Il vecchio accordo di programma prevede un certo livello occupazionale e di produzione, ma ormai viene sostanzialmente richiamato solo nelle manifestazioni sindacali che si snodano dietro lo striscione “Pacta servanda sunt”, cosa che non è. Ed è chiaro che, in una situazione simile, le istituzioni genovesi stiano pensando a usi alternativi delle enormi aree di Cornigliano, quasi una città nella città, per logistica e portualità.
Ed è su questo discorso che salta su Sergio Cofferati che spiega: “Attenzione perché la logistica non dà gli stessi posti di lavoro dell’acciaio, non è la stessa cosa”.
La storia di mobbing
Tutto questo si innesca nel racconto di una storia che con questo c’entra relativamente, che è quella raccontata da “Palazzina LAF”, il film di Michele Riondino con Elio Germano che è sì ambientato nell’acciaieria di Taranto, ma che racconta una storia di mobbing ai tempi della gestione Ilva della famiglia Riva, già narrata anche in un podcast di due puntate su Radiouno.
La storia che porta ai giorni odierni nasce invece con le inchieste della magistratura tarantina sull’Ilva, alcune sacrosante, come questa sul mobbing o quelle sui danni ambientali (anche se i dati su alcune tipologie di tumori più alti a Lecce che a Taranto fanno riflettere come su ogni semplificazione nell’individuazione del male assoluto), altre con scelte quantomeno discutibili, come quando vennero sequestrati anche i coils, cioè le bobine d’acciaio già pronte, che ovviamente essendo già lavorate non provocavano alcun danno ambientale e restando in banchina erano lasciate lì ad arrugginire anziché continuare il ciclo produttivo a Genova e a Novi Ligure.
E questo è il sottotesto del film di Riondino, con il regista e interprete, tarantino doc e da sempre in prima fila con il mondo dei comitati ambientalisti di Taranto, che lotta per la chiusura dell’acciaieria.
A Genova, “Palazzina LAF” è stato presentato al Sivori, il cinema dove nell’Ottocento è stato proiettato per la prima volta in Italia un film, ma anche dove è stato fondato il Partito socialista italiano, con una targa che ancora oggi ricorda “le lotte con i lavoratori per il socialismo” e che ancora pochi anni fa, nel 1993, ospitò una riunione del Partito socialista italiano, con il presidente del partito, Gino Giugni, padre dello statuto dei lavoratori in Italia, senza il quale l’idea di mobbing e di diritti dei lavoratori non sarebbe stata nemmeno ipotizzabile, e con l’allora segretario regionale del Garofano Antonio Gozzi, oggi presidente di Federacciai e da sempre sostenitore di Taranto, che ha alcune strutture, da quelle per la produzione di ghisa a quelle che hanno recepito le nuove norme ambientali, di assoluto valore.
Ed è quasi un gioco di coincidenze che fa riflettere.
Cofferati in sala
Ma c’è di più. Perché in sala, a presentare il film, c’era per l’appunto anche Sergio Cofferati, ex leader della Cgil e soprattutto l’uomo capace di portare in piazza tre milioni di persone, l’ultimo vero leader della sinistra italiana. Un sindacalista concreto e capace di sottoscrivere contratti che dice le cose anche che molti, soprattutto alcuni spettatori e fans di Riondino, non vogliono sentirsi dire. A partire da una frase: “L’Italia non può restare senza la produzione di acciaio”
Poi, certo, Cofferati, parla di produzioni con nuove tecnologie, un po’ come è capitato alla Pirelli, dove lavorava lui alla Bicocca, dove 13mila persone lavoravano cavi e gomme.
E invece Riondino, che racconta di aver avuto la sua vita scandita dai ritmi dei turni del papà che lavorava in acciaieria che ha messo nel film anche temi da tragedia grottesca, “come Fantozzi”, anche nella colonna sonora di Theo Teardo, con la splendida canzone finale di Diodato, un altro tarantino vicino ai movimenti, ha un altro punto di vista e se la prende anche con i suoi concittadini proni al “ricatto”, che è quello dei posti di lavoro.
Dal pubblico, che tifa Riondino – ed è venuto al cinema per lui – partono contestazioni a Cofferati, che ha detto cose assolutamente giuste e di buon senso per un Paese che vuole essere manifatturiero. Qualcuno urla: “Basta comizi!”, anche se in realtà a non fare comizi è proprio l’ex segretario della Cgil che fa un discorso che è assolutamente di politica industriale e soprattutto risponde semplicemente e cortesemente a una domanda di Francesca Savino, docente e critica cinematografica, spettacolo nello spettacolo.
E dal pubblico parte anche l’attacco ai sindacati, con alcuni che si alzano e urlano in faccia a Cofferati: “E voi dov’eravate?”.
Ecco, a volte per raccontare come mai la più grande acciaieria d’Europa rischia di chiudere, un film aiuta moltissimo.