Unilever rivoluziona l’industria della bellezza cancellando la parola “normale”
L’uso di questo termine nelle pubblicità e nelle confezioni sarà vietato perché controproducente

Il 9 marzo la multinazionale britannica Unilever ha annunciato che smetterà di utilizzare la parola “normale” sulle confezioni e nelle pubblicità dei suoi prodotti per la cura e la bellezza della persona. L’azienda ha anche annunciato che non modificherà più forma, dimensioni o proporzioni del corpo né il colore della pelle nelle immagini utilizzate per la pubblicità dei suoi prodotti.
Apparentemente una non-notizia, degna del Grande Capo di “Seiunozero”, ma se una società di tali dimensioni decide di proclamarla urbi et orbi in pompa magna qualcosa di rilevante o quanto meno degno di nota ci deve essere. Con 51 miliardi di euro di fatturato e 150mila addetti, l’azienda infatti è un gigante nel settore dei prodotti di largo consumo, alimentari, per la persona e per la casa. Suoi sono marchi come Algida, Badedas, Cif, Clear, Dove, Coccolino, Fissan, Knorr, Lipton, Lux, Glysolid, Mentadent, Sunsilk, Svelto e Vaseline, solo per citare alcuni dei circa 400 commercializzati.
La normalità che esclude
L’iniziativa, chiamata dai suoi promotori “Positive Beauty”, è il frutto di un’indagine commissionata da Unilever e svolta a livello globale con 10mila interviste dalla quale è emerso che utilizzare la parola “normale” per descrivere i capelli o la pelle fa sentire la maggior parte delle persone escluse. E Unilever ha oltre 200 prodotti che riportano la parola incriminata sulla propria confezione.
Sentirsi migliori
Dall’indagine risulta che il 56% degli intervistati ritiene che l’industria della bellezza abbia il potere di far sentire le persone escluse, il 74% desidera che le aziende del settore si concentrino sul far sentire le persone migliori più che sul farle apparire migliori, il 52% dichiara di considerare la posizione delle diverse aziende sulle varie questioni sociali quando compra prodotti per la persona e il 70%, infine, concorda con l’affermazione che utilizzare la parola “normale” sulle confezioni e nella pubblicità dei prodotti abbia un impatto negativo.
Bellezza inclusiva
Sunny Jain, presidente della divisione Beauty and Personal Care di Unilever, ha dichiarato: «Con un miliardo di persone che usano ogni giorno i nostri prodotti per la cura e la bellezza della persona, e assai di più che vedono le nostre pubblicità, i nostri marchi hanno il potere di fare una vera differenza per la vita delle persone. Essendo parte di tutto ciò ci dobbiamo impegnare a combattere norme e stereotipi dannosi e a delineare una definizione più vasta e inclusiva di bellezza».
Una scelta di marketing necessaria
L’indagine, la decisione e l’annuncio, per quanto marketing allo stato puro, sono la spia di qualcosa di più rilevante. Rappresentano il segno di una mutata percezione della società da parte delle grandi multinazionali, o meglio di una più accurata capacità di cogliere, e forse di comprendere, i cambiamenti in atto e le tensioni che l’attraversano e di agire di conseguenza. Negli Stati Uniti in particolare, ma non solo.
La diversità che esclude
La questione in ballo, infatti, non è la bellezza inclusiva, quanto la diversità che esclude. Razzismo, body shaming, sciovinismo. I temi sul tavolo in realtà sono questi. «La parola normale è usata per separare. Ma io sono normale, la mia pelle scura è normale, le rotondità africane del mio corpo sono normali. Tutto di me è normale» sottolinea la giornalista britannica Ateh Jewel.
«Sono cresciuta con capelli ricci, riccisimi, e quello che veniva considerato normale nelle pubblicità e sui prodotti erano invece capelli lisci e setosi, soprattutto di modelle bianche. Ed era perciò quello che anch’io pensavo fosse normale» - ha ricordato al New York Times Nina Davuluri, modella e prima Miss America di origine indiane.
Essere normali è stato in larga parte accostato all’essere bianchi, possibilmente biondi, longilinei e in forma e all’avere appunto capelli lisci e setosi. E le pubblicità e le foto sulle confezioni stanno lì a testimoniarlo. Anche nelle società multietniche o nelle quali la popolazione bianca è una minoranza le cose non cambiano poi molto. La normalità è spesso associata all’avere la pelle chiara e all’ essere in forma, difficilmente ai capelli ricci. Ma il mondo non è così, è ricco, variegato fatto di mille forme e colori e oggi comincia a chiedere che sia l’industria della cosmesi ad adattarsi a lui e non viceversa.
Black Lives Matter
Lo scorso giugno, dopo l’esplodere delle proteste per l’uccisione di Geroge Floyd e l’erompere del movimento Black Lives Matter, Johnson&Johnson ha annunciato che non avrebbe più commercializzato lozioni per sbiancare la pelle, mentre L’Oreal ha dichiarato che non avrebbe più utilizzato la parola “sbiancante” sui suoi prodotti. Una scelta adottata anche da Unilever che, tuttavia, si è guardata bene dall’effettuare cambiamenti sul suo prodotto “Fair&Lovely”, grande successo in India, la cui pubblicità per decenni è stata incentrata sul messaggio che una pelle più chiara sia la chiave della felicità. Mercati diversi, società diverse, politiche diverse.
Ma è veramente così rilevante?
Togliere la parola “normale” da shampoo, tinture, creme da barba e saponi cambierà il mondo? Probabilmente no. Anzi, sicuramente no. Però è un segno che lo stereotipo di bellezza sta cambiando, o meglio che quello proposto finora oggi viene rifiutato e domani verrà guardato con gli stessi occhi con i quali noi vediamo le pubblicità dell’800. Un indizio che le grandi multinazionali stiano adattandosi all’idea che la normalità (concetto già complicato di per sé) forse non esiste.