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[L’analisi] Ha creduto più nella Finanza e meno nell’innovazione. Successi, fallimenti ed errori di Marchionne

Nella colonna del passivo dell’era Marchionne, c’è il fallimento del tentativo ripetuto testardamente, a volte in modo quasi disperato, e sistematicamente abortito di sposare la Fca ad un’altra grande dell’auto. In particolare, la General Motors. Toccherà a Manley capire se il problema di Marchionne era solo il volume di produzione, se sette milioni bastano, se la strada del matrimonio va battuta ancora. Tuttavia, il problema dell’ex Fiat nel dopo Marchionne non sembra essere né la finanza, né la produzione, ma, piuttosto, l’innovazione

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
Sergio  Marchionne
Sergio Marchionne

Vittorio Valletta è rimasto al timone della Fiat per un tempo quasi doppio: da subito prima della guerra all’Italia industriale del dopomiracolo economico. Con lui, la fabbrica torinese è diventata l’azienda dominante dell’economia italiana, ma anche della società e perfino della cultura: l’Italia al volante di un’utilitaria – la 600 e poi la 500 – è stato il segnale più nitido della svolta che ha segnato la storia del paese. Ma l’era Marchionne che volge al tramonto,  non lascia nelle mani del successore, l’inglese Mike Manley, un’eredità meno vistosa: nei suoi 14 anni corsi a perdifiato, la più importante realtà economica italiana ha cambiato pelle e passaporto. E’ entrata di prepotenza fra le sette sorelle dell’auto mondiale e ha abbandonato l’Italia, diventando una multinazionale apolide, divisa fra Amsterdam e Londra.

Il segreto di Marchionne non è l’auto

Difficile resistere alla tentazione di accomunare il successo di Valletta e quello di Marchionne sotto il logo della stessa macchina: la 500. L’utilitaria boom del dopoguerra, riesumata e ripensata dal manager italo-canadese è il modello che ha accompagnato la resurrezione della Fiat nel nuovo secolo. Ma, anche mettendo in fila le auto lanciate con buon successo dal 2004 ad oggi, durante il suo regno, la fabbrica non è il luogo in cui è nata e si è affermata l’era Marchionne. Anzi, al di là di singoli buoni risultati, le auto sono state proprio il suo punto debole. Cruciale – e, peraltro, condivisa anche dalle grandi case tedesche – la sua riluttanza a scommettere sulle auto del futuro, il testardo attaccamento, finchèè stato possibile, al diesel, l’interminabile esitazione a saltare sul treno dell’auto elettrica. Se è stato sordo a quella che possiamo definire la microeconomia dell’auto, Marchionne ha avuto però ben chiara la sua macroeconomia. “In questo mondo – disse all’inizio – non si resiste se non si producono almeno sei milioni di auto”. Ancora nel 2008, la Fiat era ferma a 2 milioni di macchine. Oggi è a sette milioni ed è il sesto produttore mondiale.

Il segreto di Marchionne è la Finanza

La leva principale usata da Marchionne per rilanciare la Fiat è, invece, la finanza. L’azienda che prende in mano nel 2004, con la scomparsa di Umberto Agnelli, ha soprattutto debiti. Chiamandosi fuori dalla vendita promessa alla General Motors (la celebre “put option” l’opzione a vendere, firmata dai suoi predecessori) Marchionne si ritrova in cassa un po’ di sospirata liquidità, che moltiplica con il prestito di un consorzio di banche. La Fiat può ripartire e, soprattutto, avere le munizioni necessarie per compiere il salto che è la vera eredità di Marchionne: l’acquisto della Chrysler in crisi. Il matrimonio con la terza fra le grandi case americane fornisce alla Fiat il volume di vendite desiderato per reggere la concorrenza mondiale, dà all’azienda il lustro internazionale che cercava e acquisisce al portafoglio della casa (ancora per poco) torinese modelli-icona, come la Jeep, che la fanno entrare nel lucroso mercato dei fuoristrada e, insieme, ne rinnovano radicalmente l’immagine, cancellando il logoro marchio delle utilitarie di bassa qualità. L’importanza di questo salto, in fondo, la conferma anche la scelta del successore di Marchionne in Mike Manley, che del marchio Jeep era, fino a ieri, il responsabile.

L’Italia da lontano

Dal punto di vista di Marchionne, la logica conseguenza dello sbarco in America è stata il brusco taglio che ha reciso il legame con l’Italia. La riunione che ha sancito la successione a Marchionne è avvenuta al Lingotto, a Torino e l’azienda mantiene molte importanti fabbriche e realtà produttive in Italia. Tuttavia non si chiama più Fiat, ma Fca e la sede è all’estero, fra Londra e Amsterdam. Quella che gli eredi Agnelli tuttora controllano è una multinazionale a tutti gli effetti, anche giuridici. E’ una scelta che ha comportato anche la recisione di legami importanti nella gerarchia del paese. Dopo aver occupato una delle stanze principali nel Palazzo del Potere e aver svolto per decenni il ruolo del più importante gruppo di pressione italiano, l’ex Fiat ha ufficialmente traslocato all’estero. L’immagine pubblica dell’uscita della Fca dal Palazzo è il mutamento del suo rapporto con uno strumento cruciale come i media. Agli Agnelli, i giornali sono sempre piaciuti, ma oggi il fiore all’occhiello è la partecipazione ad un settimanale mondiale autorevole come l’Economist di Londra. Su insistenza di Marchionne, la Fiat ha lasciato prima il Corriere, poi la Stampa. E gli Agnelli sembrano accontentarsi di una partecipazione minoritaria a Repubblica.

Lo strappo sindacale

Nell’ottica in cui si muoveva Marchionne, la mossa con cui la Fiat ha sconvolto il sistema consolidato dei rapporti sindacali risulta perfettamente coerente e, probabilmente anche, a torto o a ragione, in sintonia con i tempi e con il declino del sindacato. Ma, a chi ricorda l’ultimo grande leader della Fiat, Gianni Agnelli, presidente della Confindustria e interlocutore privilegiato di Luciano Lama e della Cgil, quello di Marchionne che, nel 2010, esce dalla Confindustria, pretende un contratto su misura per la Fiat e al diavolo gli altri industriali, spacca il sindacato e ingaggia un duello, mai concluso, con i metalmeccanici della Cgil appare molto più di un ribaltone. Un autentico strappo, che ha profondamente modificato la mappa del potere in Italia, relegando la Confindustria ad un ruolo laterale e sottolineato, nel modo più chiaro possibile, i nuovi rapporti di forza con i lavoratori, nella nuova fabbrica dei robot.

I passaggi obbligati del dopo-Marchionne

Nella colonna del passivo dell’era Marchionne, c’è il fallimento del tentativo ripetuto testardamente, a volte in modo quasi disperato, e sistematicamente abortito di sposare la Fca ad un’altra grande dell’auto. In particolare, la General Motors. Toccherà a Manley capire se il problema di Marchionne era solo il volume di produzione, se sette milioni bastano, se la strada del matrimonio va battuta ancora. Tuttavia, il problema dell’ex Fiat nel dopo Marchionne non sembra essere né la finanza, né la produzione, ma, piuttosto, l’innovazione. Se un coniuge va cercato, la logica spinge verso qualcuno con credenziali nell’auto elettrica, le macchine senza guidatore, piuttosto che un altro gigante con gli stessi problemi di Fca.

 

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
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