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Perché due anni di pandemia e ora la guerra mettono in crisi questo modello di globalizzazione

Non si tornerà del tutto indietro, ma quella sorta di fantasia di un mondo completamente interconnesso va archiviata

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Foto Ansa
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Ci volle una guerra (la prima mondiale) e una pandemia (la spagnola) per stroncare la prima grande ondata di globalizzazione dell'era moderna. Ad un secolo di distanza, una pandemia (il Covid) e una guerra (l'invasione dell'Ucraina) stanno esaurendo la seconda grande globalizzazione. Non si tornerà del tutto indietro, ma quella sorta di fantasia di un mondo completamente interconnesso, in cui ognuno e ogni cosa è a distanza di un clic, le frontiere sono cadute e – quasi, quasi – la cena pronta arriva direttamente dal Marocco o dalla Thailandia va archiviata.

Meno interconnessi

Non è più vero che “il mondo è piatto”, come recitava il titolo di un famoso libro di inizio secolo. Invece è diventato pieno di ostacoli, barriere, giravolte. Soprattutto si è spenta la fede in un pilastro della teoria economica, come la teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo. Sarà pur vero che, se i portoghesi sanno fare il vino e non le locomotive, mentre gli inglesi sanno fare le locomotive e non il vino, la soluzione più conveniente è che ognuno faccia ciò che sa fare e lo scambi con quello che san fare meglio gli altri. Ma la gente non si fida più.

Cineserie necessarie e sostituibili 

Un sondaggio di questi giorni racconta che, in Germania (uno dei paesi che più ha guadagnato dalla globalizzazione) quasi metà delle aziende manifatturiere dipendono da cruciali componenti proveniente dalla Cina. E ora, di queste aziende, una su due dichiara di essere impegnata a ridurre queste importazioni. E' un fenomeno generalizzata e trasversale.

“Faremo da soli”

Nell'onda della pandemia, Europa e America hanno scoperto che l'industria dell'auto era paralizzata dalla mancanza di chip che non arrivavano dalla Corea. “Faremo da soli” hanno proclamato sia Bruxelles che Washington. Ma l'emergenza coronavirus ha anche rivelato all'Europa che, quando mancano per tutti medicinali e vaccini, non si può fare affidamento sulla buona volontà di partner commerciali (la Gran Bretagna, nel caso specifico). “Facciamo da soli” hanno detto anche qui a Bruxelles. E la stessa cosa vale per le cosiddette “terre rare”, minerali dai nomi sconosciuti, ma cruciali per computer, telefonini, laser e che la Cina manda e non manda. “Cerchiamoceli” hanno detto a Bruxelles (in fondo, uno dei più importanti si chiama europio).

Il caso del gas russo

Non è tanto un problema di autosufficienza. Ma la massima convenienza non è più un dogma. Il caso più eclatante è il gas russo. Niente sarebbe più conveniente del metano di Gazprom, che arriva comodamente via tubo, a prezzi concordati da anni. Ma l'orrore ucraino dimostra che il partner russo è inaffidabile e anche inaccettabile. Meglio, allora, il gas arabo e americano, che arriva via nave, anche se costa di più e viene da più lontano. E' una vittoria della politica sull'economia, in nome di un giudizio morale che (per una volta) fa premio sulle ragioni di portafoglio che hanno, fin qui, mosso la globalizzazione.

Donald il doganiere

In realtà, la corsa al “mondo piatto” aveva, però, già subito più di una battuta d'arresto. La raffica di tariffe, sparate un po' alla cieca a est come a ovest, dell'era Trump ne è la conferma più vistosa. Ma Donald il doganiere era solo la punta dell'iceberg: i vari indicatori mondiali di libertà dei traffici segnalano da anni il lento avanzare, alle frontiere, di dazi e balzelli come di ostacoli burocratici e regolamentari alle importazioni. Del resto, Trump è passato, ma a Washington, registra il New York Times, “il libero commercio non è più il vangelo”: ad un anno dal cambio della guardia alla Casa Bianca, il grosso delle tariffe istituite da Trump è ancora in piedi.

Un modello fragile

L'erosione della globalizzazione ha, infatti, anche ragioni profonde. La pandemia, i lockdown, gli ingorghi ai porti hanno, infatti, rivelato la fragilità del modello stesso del business globale. Dagli anni '80, le aziende basano sempre di più la loro logistica sul “just in time”. Si risparmia (e non poco) sulle spese di stoccaggio e magazzino, limitando al massimo le scorte e avvicinando il più possibile il momento della produzione di un bene al momento in cui un consumatore lo chiede. Con l'avanzare della globalizzazione, queste catene logistiche si sono sempre più allungate: il magazzino “just in time” di una fabbrica di mobili si basava su legno che arrivava dalla Cina. Negli ultimi due anni, queste tortuose catene di fornitura sono saltate, spingendo le aziende ad accorciare drasticamente i propri percorsi logistici: se non in patria, almeno qui vicino.

Frammentazione mondiale

Per un commercio internazionale che, per il 70 per cento, si basa proprio su queste catene di fornitura è una rivoluzione. Ma la guerra in Ucraina ha allargato questa frammentazione mondiale ad altri due motori della globalizzazione. Il primo è la finanza. Le sanzioni alla Russia stanno segmentando il mondo bancario, a cominciare dal suo circuito comunicativo, il sistema di messaggistica Swift, che movimenta il trasferimento dei fondi a livello globale. La Russia non rappresenta una quota rilevante della finanza mondiale, ma la sua esclusione alimenta i progetti di creare circuiti alternativi, a cui da tempo lavora la Cina. E, contemporaneamente, rafforza chi vorrebbe contestare l'egemonia e l'ubiquità di quella che è tuttora la moneta mondiale, ovvero il dollaro.

La dittatura del dollaro

Né l'alternativa a Swift, né i tentativi di liberarsi dell'egemonia della moneta americana sembrano avere grande respiro. Ma sembrano già prefigurare il mondo postglobalizzazione: non ricondotto, come un secolo fa, alle dimensioni nazionali, ma strutturato in blocchi regionali, largamente autoreferenziali e collegati l'uno all'altro con una certa macchinosità. Del resto, è quello che sta già avvenendo nella faccia più evidente e più conosciuta della globalizzazione: il mondo digitale di Internet.

Le alternative cinesi ai colossi occidentali

La Cina ha già da tempo creato un proprio recinto, con protagonisti identici e alternativi ai modelli occidentali di Facebook, Google, Whatsapp. Anche la Russia, sulla spinta della guerra e delle sanzioni, si sta avviando su questa strada.
E' un mondo che, forse, ci apparirà più riconoscibile. Ma, per gli economisti, è un passo indietro. Una economia frammentata è meno efficiente, perché non può sfruttare le situazioni più produttive, dovunque esse si trovino. E, per questo, è anche più costosa. La crisi ucraina e la crisi dell'energia, probabilmente, rientreranno nei prossimi mesi, spegnendo l'impennata dei prezzi che stiamo vivendo. Ma, a lungo termine, i prezzi non torneranno quelli di prima, dicono gli economisti. Dietro i decenni di bassa inflazione che abbiamo vissuto fino a ieri c'era, in buona misura, proprio la globalizzazione.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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