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In arrivo dall’Ue una pioggia di soldi: per l'Italia, è molto più che una boccata d'ossigeno ma non sono del tutto gratis

Il meccanismo abbozzato da Merkel e Macron funziona come gli eurobond

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
In arrivo dall’Ue una pioggia di soldi: per l'Italia, è molto più che una boccata d'ossigeno ma non...

E, alla fine, sull'Italia arrivò davvero la pioggia di miliardi dei coronabond. Tutti si guarderanno bene dal chiamarli così e, ancor più, di pronunciare la parola “eurobond”, di cui i coronabond avrebbero dovuto essere la versione una tantum Tuttavia, il meccanismo abbozzato lunedì da Angela Merkel e Emmanuel Macron nella loro proposta di Fondo per la Ripresa europea funziona esattamente come gli eurobond: i paesi europei emettono tutti insieme delle obbligazioni con cui si finanziano i progetti di ripresa di alcuni di loro e, alla fine, il debito con gli investitori viene ripagato, solidalmente, da tutti i 27, a prescindere da chi ha effettivamente utilizzato i fondi. Paradossalmente, aver creato – proprio per aggirare le riserve degli eurodiffidenti - il precedente di utilizzare, come strumento, il bilancio comunitario ha uno sbocco più federalista di una emissione unica ed eccezionale: gli euroscettici si sono sparati nei piedi. Probabile che se ne accorgano: mugugni e resistenze sono già emersi.

Difficile, però, che il Recovery Fund  che vedrà la luce, probabilmente, entro giugno, sia alla fine molto diverso, nelle sue due caratteristiche essenziali (i soldi di tutti per stanziamenti soprattutto a fondo perduto), da quello delineato da Merkel e Macron: la cancelliera tedesca si è esposta di persona anche contro i conservatori che ha in casa, deve rimediare alla figuraccia della sentenza anti-Bce di Karlsruhe, toccherà a lei la gestione e la responsabilità dell'avvio del Fondo, visto che, nella seconda metà del 2020, la presidenza della Ue tocca a Berlino.

Per l'Italia, è molto più che una boccata d'ossigeno, anche se i soldi non arrivano proprio del tutto gratis. Ai 100 miliardi che arriverebbero dal Fondo (ma potrebbero essere di più), bisogna aggiungere i soldi del Sure (un po' meno di 20 miliardi destinati a finanziare la cassa integrazione), quelli delle garazie Bei per la liquidità delle imprese (un'altra ventina di miliardi). Ed è probabile che il presidente del Consiglio approfitti di un pacchetto così ricco per aver ragione delle resistenze dei 5Stelle e infilarci anche un Sì ai 36 miliardi del Mes per la sanità. Per frenare la crisi e assicurare la ripartenza del paese, insomma, Bruxelles offre, a vario titolo, un totale di 170-180 miliardi di euro, tre volte quanto il governo di Roma, di suo, ha appena varato con il megadecreto di Maggio.

La conclusione è che non bisogna mai sottovalutare l'inventiva dei tecnocrati di Bruxelles e la loro capacità di aggirare, con nuove norme, l'obsolescenza di quelle vecchie. Quello prospettato fin qui, infatti, è un risultato drasticamente semplificato. Nei fatti, è tutto molto più complicato. Alla base, però, c'è l'uovo di Colombo scovato dalle vecchie volpi della politica comunitaria: il Fondo Merkel-Macron non comporta modifiche qualitative alla struttura dell'Unione. Sono le quantità che sono inedite. E questo, per un verso, segna la svolta. Ma le prassi su cui cammina questa svolta sono radicate e consolidate. Quando il Parlamento austriaco o quello olandese saranno chiamati a ratificare il Fondo non potranno invocare posizioni di principio: dovranno dire che non vogliono dare quei soldi.

Infatti, tecnicamente, nessuno sborsa un euro in partenza. I governi consentiranno soltanto alla Commissione un tetto di spesa teorico non più pari all'1,1 per cento del Pil europeo, ma fino al 2 per cento. Questo spazio, anche se solo teorico, in più consente alla Commissione di presentarsi sui mercati finanziari e collocare sue obbligazioni, garantite dai fondi in più che, ove mai occorresse, i governi verserebbero, rispetto al normale, per arrivare al 2 per cento. Decidere se il tetto di spesa è l'1 o il 2 per cento è importante, ma normale routine. Anche indebitarsi sui mercati è routine: il punto è che la Commissione lo ha sempre fatto per importi modesti, non per 500 miliardi di euro. Questi fondi verranno poi distribuiti ai paesi che più ne hanno bisogno. Anche questa è routine: così funzionano i vari fondi comunitari di coesione territoriale, secondo programmi specifici e differenziati, paese per paese. E a fondo perduto, naturalmente: nessuno ha mai pensato di farsi ridare i soldi versati da Bruxelles per i suoi diversi progetti di sviluppo economico nei vari paesi.

Questo schema sarà definito dalla Commissione entro fine maggio e portato al summit dei capi di governo dopo metà giugno. Merkel e Macron hanno parlato di un Fondo da 500 miliardi, che erogherà non prestiti, ma sovvenzioni a fondo perduto per evitare di appesantire di debiti i paesi beneficiari (infatti, ieri, il termometro dello spread ha visto scendere di quasi 30 punti la temperatura). L'importo di 500 miliardi è inferiore ai mille miliardi e passa, di cui aveva parlato Ursula von der Leyen, ma il vantaggio è che non sono prestiti. Peraltro, a Bruxelles non si esclude che ai 500 miliardi di sovvenzioni si aggiungano altri 2-300 miliardi di fondi, però sotto forma di normali crediti. Al momento, il confronto fra i paesi che sono stati definiti “frugali” (Olanda, Austria, Svezia, Finlandia e Danimarca) e gli altri è soprattutto sulla quota di prestiti e quella di sovvenzioni a fondo perduto. Ma lo scontro sotterraneo è molto più ampio. Legare il Recovery Fund al bilancio comunitario significa, infatti, calare il fondo per la ripresa in quel nido di vipere  che è il dibattito sul bilancio della Ue dei prossimi sette anni, già reso incandescente dalla rimodulazione delle quote, causa Brexit e uscita della Gran Bretagna. Di bilancio si discute, in effetti, senza risultati, da due anni. Per far partire il Fondo già in estate, occorrerebbe una accelerazione, come a Bruxelles se ne sono viste ben poche.

Per l'Italia, paradossalmente, il problema è quello dell'abbondanza. Da anni, Roma e le regioni non riescono a spendere i soldi che l'Europa mette a disposizione e, peraltro, neanche le decine di miliardi che sarebbero già spendibili sul bilancio dello Stato senza gravare sul debito, perché già finanziate. E' l'imbuto della legislazione e della progettazione, su cui si arenano regolarmente i grandi piani per le infrastrutture. Le necessità sono note: investimenti verdi, dissesto idrogeologico, scuola, la digitalizzazione del paese, la resurrezione del turismo. I progetti per affrontarle, però, non ci sono o sono fermi. Si rischia di perdere una clamorosa occasione. Che, peraltro, non è neanche esattamente del tutto gratuita. L'Italia avrà 100 miliardi dal Fondo a fondo perduto. Ma, alla fine, dovrà partecipare, con gli altri 26 membri della Ue alla restituzione dei soldi agli investitori. Non prima di dieci anni, probabilmente, e a tassi di interesse stracciati rispetto a quanto il Tesoro paga oggi. Un affare, insomma. Però, l'Italia dovrà partecipare per la sua quota nel bilancio alla restituzione dei 500 miliardi. La quota italiana è il 12 per cento. Vuol dire avere 100 miliardi subito, ma restituirne, anche se fra dieci anni e più, 60. E' il caso di spenderli bene.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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