[L’analisi] Elkann non ha più lo scudo del maglione nero di Marchionne e dovrà decidere delle fabbriche italiane
Se guardiamo con obiettività a quel che ha fatto Marchionne, dobbiamo ammettere che l’occhio di riguardo per l’Italia c’è stato, eccome. I casi di Pomigliano, Melfi, Modena e Torino. E ora? Dove finiranno le nuove produzioni del piano al 2022?
Quanto resta di italiano in FCA dopo l’uscita di Sergio Marchionne? La discussione infuria, perché non solo il numero uno è stato sostituito da un inglese, Jack Manley, ma se n’è andato sbattendo la porta anche quello che fino a ieri era considerato se non il numero due, almeno il numero tre. Ovvero Alfredo Altavilla, che a differenza di Marchionne italiano è al 100%, pugliese per la precisione. Un interrogativo del genere sarebbe impensabile per concorrenti del calibro di Renault, Volkswagen e Toyota, o di Ford e General Motors: quelle aziende sono talmente legate al loro sistema-paese da rendere impossibile il taglio del cordone ombelicale.
Spostato il baricentro operativo
Ma la Grande Crisi ha già portato via un pezzo di FCA (le sedi fiscali e legal-amministrativa sono tra l’Olanda e l’Inghilterra) e per di più la felice acquisizione di Jeep-Chrysler ha parecchio spostato verso Detroit il baricentro operativo. C’è dunque da condividere l’indignazione del grande ex, Cesare Romiti, che grida allo scandalo per l’italianità ormai tradita? E poteva essere Altavilla l’ultimo argine alla progressiva perdita di potere di Torino? Onestamente no. Il manager pugliese se n’è andato perché ha perso la gara alla successione di Marchionne. Ha fama di essere uomo molto duro, deciso, e la repentina decisione di mollare lo conferma. E la "questione italiana", se così la vogliamo chiamare, si gioca su altri piani che non sono quello del passaporto dei manager, ma piuttosto del rapporto tra l’azionista e la guida operativa.
I posti di lavoro
E riguarda il ruolo delle fabbriche, ovvero la distribuzione dei posti di lavoro nello scacchiere produttivo di un gruppo che negli ultimi anni si è sempre più spostato verso la fascia alta del mercato, a dispetto della vecchia vocazione ‘popolare' della Fiat. Non lo ha fatto certo per snobismo, ma per sopravvivere, perché solo nei modelli più cari si guadagnano soldi e si compensa nei prezzi finali il maggior costo del lavoro dei Paesi occidentali (come il nostro) nei confronti di realtà emergenti. Se guardiamo con obiettività a quel che ha fatto Marchionne, dobbiamo ammettere che l’occhio di riguardo per l’Italia c’è stato, eccome. Ha riportato in patria la produzione della Panda, nella tormentata Pomigliano, togliendola alla fabbrica polacca, considerata un modello per efficienza e qualità. E ha dato a Melfi la produzione della nuova Jeep, la Renegade, per compensare l’uscita di scena della Punto. Ha rilanciato la Maserati, dando lavoro a Modena e a Torino. Certo, ha chiuso Termini Imerese, una fabbrica che però era nata in un posizione geografica obiettivamente difficile da sostenere.
Finita l’era dell’uomo solo al comando
E ora? Dove finiranno le nuove produzioni del piano al 2022? La FCA nata sabato a Torino non è più l’azienda con l’uomo solo al comando che è stata con Marchionne. C’è un presidente-azionista, John Elkann, che non è più il ragazzino spaesato che nel 2004 ereditò la guida di una famiglia allo sbando, dopo la morte in rapida successione del nonno, Gianni Agnelli, e di zio Umberto. Ed è lui che, italianissimo a dispetto del nome, potrà far pesare il ruolo dell’Italia nel gruppo che Manley dovrà traghettare nella nuova era fatta anche di elettrico e di guida autonoma. Lo vorrà fare? Questa è la domanda. Quel che è certo è che la responsabilità sarà sua, non avrà più il maglione nero di Sergio a fargli da scudo nelle decisioni dolorose.