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[Il ritratto] Vittorio Emanuele, altro che padre della patria. La vicenda tragicomica dei Savoia

Il re piccoletto che vorrebbero al Pantheon è l’eroe che ha distrutto l'Italia accumulando errori gravi a scelte ignavi. Intanto la famiglia reale si spacca su un'ipotesi che non c'è

[Il ritratto] Vittorio Emanuele, altro che padre della patria. La vicenda tragicomica dei Savoia

La Storia insegna sempre. Peccato che non ha scolari. Se no qualcuno si farebbe due o tre domande su Vittorio Emanuele padre della Patria. Ma in tutta questa disputa c’è una cosa in più che colpisce dei Savoia, oltre a tutto il resto, che ormai fa parte della Grande Storia e pure della piccola. Il fatto che non vanno mai troppo d’accordo tra di loro. Adesso che è rientrata in Italia al santuario di Vicoforte, vicino a Mondovì, la salma di Vittorio Emanuele III, chiamato non abbiamo mai capito bene perché il Re soldato, visto come se la dette a gambe l’8 settembre con tutto il governo e le alte gerarchie militari, lasciando Ronma senza difesa e condannando a morte gli unici incolpevoli: i veri soldati.

Appena arrivata la salma della Regina, suo nipote, l’erede al trono Vittorio Emanuele, figlio di Umberto, ha subito emesso un duro comunicato: «Ritengo che riportare la salma della regina in totale anonimato e in segretezza sia un insulto alla sua memoria e a tutto ciò che rappresenta. Giustizia sarà fatta quando tutti i sovbrani sepolti in esiliio riposeranno nel Pantheon di Roma». In un’intervista al Corriere, poi, suo figlio Emanuele Filiberto aveva chiarito bene chi fosse il bersaglio di quelle parole, cioé Maria Gabriella, sua zia, la sorella di Vittorio Emanuele, che aveva preso in autonomia la decisione di far rientrare le spoglie in Italia, trattando in gran segreto con il Colle, senza nemmeno avvisarli. Non prende in considerazione un piccolo particolare, e cioé che il Presidente della Repubblica aveva sempre premesso che l’operazione si poteva fare con una sola destinazione possibile: il santuario di Vicoforte.
Così è andata.

Ma Maria Gabriella, che - fra l’altro - almeno lei gode di buona stima nei palazzi che contano di Roma, porta anche sulle spalle il peccato originale agli occhi della Famiglia di essere schierata con Amedeo d’Aosta nella disputa tutta teorica sulla successione. E allora qualche stralo si perde facilmente qua e là.

Mentre loro continuano a bisticciare, Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, tuona senza mezzi termini che «sarebbe veramente uno scempio mettere la salma di una figura storica che per l’Italia tutta ha significato la tragedia più importante del secolo scorso vicino a questo luogo che è stato quello della deportazione di tanti ebrei italiani». Perchè fra i tanti errori commessi dal re piccoletto, alto 1 metro e 53 su due gambe rachitiche, una faccia malaticcia nascosta sempre da due baffoni e un marziale berretto calato sulla capa, c’era il vanto d’aver apposto la sua firma sotto la legge per la difesa della razza - sic! - contro gli ebrei. Errore che l’attuale Vittorio Emanuele, uno che non va nemmeno mai troppo d’accordo con se stesso, difese incautamente al Tg2 del primo maggio 1997, proprio mentre era appena partita la campagna per farlo ritornare in Italia: «No, io a quelle leggi non devo chiedere scusa e poi non sono così terribili».

Si sa come andò, nel 2003 terminò l’esilio, e appena messo piede sull’amato suolo, Vittorio Emanuele scrisse una lunga lettera al rabbino capo per dirgli che lui era contro le leggi razziali e che era stato male interpretato. Secondo noi, non gli hanno creduto. Ma il principe è fatto così. Diciamo che ha il difetto di parlare troppo. Così dopo essere stato scagionato per la morte di Dirk Hamer, giovane tedesco ucciso sull’isola di Cavallo, il principe tornato in Italia finisce ingiustamente in carcere per Vallettopoli nell’inchiesta del pm Woodcock, perché questa è un’altra piacevole caratteristica del Belpaese che non guarda in faccia a nessuno quando c’è da sbattere qualcuno in galera, belli o brutti, ricchi e poveri, e persino - pazzesco! - innocenti o colpevoli; e una volta dentro si confida in mondovisione, intercettato perfettamente secondo tutti i crismi della legge, con il compagno di cella: «Anche se io avevo torto li ho fregati. Eccezionale. Il procuratore aveva chiesto 5 anni e 6 mesi. Mi hanno dato 6 mesi con la condizionale. C’era un’amnistia. Non l’hanno neanche scritto». Dichiarazione che non è servita a rifare il processo, ma solo a dare una bella immagine dell’erede al trono.

Che poi questo è il vero problema della famiglia reale. L’immagine. Il re piccoletto che vorrebbero al Pantheon assieme ai Padri della Patria è l’eroe che l’ha distrutta accumulando errori gravi a scelte ignavie che hanno condannato il Paese all’agonia e al dolore. Solo che dopo di lui sull’immagine, diciamo che avrebbero tanto da imparare. Chi si salva è Emanuele Filiberto, nonostante qualche piccola caduta: i fedelissimi monarchici sono ancora offesi per la pubblicità alle olive Saclà del loro principe. Tornando in Italia, ha partecipato a Ballando sotto le stelle, e rilasciato interviste molto glamour che in fondo finiscono per presentarlo semplicemente come un giovane come tanti. Che è la cosa migliore.

Certo lui non commetterebbe mai l’ennesimo errore del babbo che secondo Milano Finanza venne beccato qualche anno fa mentre assieme a Maurizio Raggi si portava via l’elica della barca di un noto imprenditore abbandonata sul molo: Sono Vittorio Emanuele. Sorry. Sempre ammesso che sia vera (le storie che lo riguardano sono così paradossali da sembrare incredibili), resta da decifrare nel suo insieme la solita immagine. Emanuele Filiberto s’è messo pure a vendere la pasta e a cucinarla su un furgone a Los Angeles. E’ uno che ha idee. E almeno parla al suo tempo. Ecco, sarebbe più furbo che lasciassero perdere il tempo passato. Meglio stendere un pietoso velo.

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno, giornalista e scrittore   
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