[L'intervista] "Metà dei medici pronti ad andarsene: rischiamo il collasso. Assumere pensionati? Vi dico cosa ne penso”
Per Carlo Palermo, segretario nazionale della Anaao, sindacato dei medici, nei prossimi 8 anni lasceranno il lavoro metà dei 105mila specialisti del Servizio Sanitario Nazionale. Ecco quali sono i rischi e cosa bisognerebbe fare. Rimettere in corsia i pensionati "è una non decisione"
L’allarme è già partito ed è forte. Entro 8 anni potrebbe andare in pensione metà dei 105mila medici specialisti impiegati nella sanità pubblica. Qualcosa come 52mila sanitari. Un vero e proprio esodo biblico in un settore che stando a uno studio recente vanta i medici più anziani d’Europa. In tal modo il nostro Servizio Sanitario Nazionale potrebbe davvero trovarsi presto in guai seri, in condizione tale da non assicurare le prestazioni ai cittadini per carenza di personale. Anzi, "senza un flusso adeguato di formazione di specialisti il rischio è il collasso". Per questo c’è chi ha sollevato da tempo il problema chiedendo un intervento adeguato. In regioni come il Piemonte entro 6 anni dovrebbero appendere il camice al chiodo 2.004 medici. In Lombardia almeno 1.921. E numeri importanti di abbandono delle corsie si prevedono anche in Toscana (1.793 ) e in Puglia (1.686), in Calabria (1.410) e Sicilia (2.251). Ma non sono immuni dalle fuoriuscite nemmeno le altre regioni italiane. Questa emorragia rischia perciò di assestare un colpo decisivo al Servizio sanitario pubblico, dove negli anni scorsi è mancata una programmazione adeguata. Cosa sta accadendo dunque, qual è la situazione della Sanità nel nostro Paese e quale la reale dimensione del pericolo? Lo abbiamo chiesto al dottor Carlo Palermo, segretario nazionale dell’ANAAO-ASSOMED, sindacato dei medici, che più volte ha segnalato la preoccupante accensione della spia rossa.
Dottor Palermo cosa sta succedendo nella Sanità italiana? Come mai mancano i medici? La vostra organizzazione ha lanciato l’allarme più volte.
“In realtà non mancano medici, intesi come laureati abilitati in medicina e chirurgia, mancano specialisti. Per entrare nel mondo del lavoro, nel Servizio territoriale delle aziende sanitarie, bisogna infatti essere specialisti, in psichiatria, cardiologia, medicina interna e così via. E a tale proposito negli ultimi 10-15 anni è stata totalmente sbagliata la programmazione. Una responsabilità dei governi che hanno guidato nel periodo l’Italia, di centrodestra e di centrosinistra, e non hanno finanziato in maniera adeguata i percorsi di formazione post laurea. Eppure noi avevamo lanciato l’allarme per tempo, una nostra pubblicazione è del 2010. Ma solo l’ultimo governo, col ministro Giulia Grillo – bisogna dargliene atto - ha cercato in qualche modo di porre una pezza alla situazione, anche se in modo insufficiente. I contratti di formazione specialistica post laurea sono passati infatti da 6.200, con un investimento di 100 milioni, a 7.100 e, se aggiungiamo le 600-700 borse regionali, arriviamo a 7.800”.
Di quanti posti invece si avrebbe bisogno?
“Di almeno 10mila posti di specializzazione, per poter tamponare la fuga dovuta al pensionamento, accresciuta adesso per effetto di Quota 100. Per cui ad essere concreti servirebbero ancora 2.500 borse e ci vorrebbero ulteriori 250 milioni. Questo il dato, e lo ribadisco: mancano specialisti, non medici”.
Visto che insiste su questo tasto, qual è la situazione da tale punto di vista?
“A voler fare una previsione si può parlare di 10mila medici laureati che attendono una formazione post laurea nei prossimi 5 anni. Nell’arco temporale 2019-2023 si laureeranno più di 50mila medici, per cui possiamo contare su una platea di 60mila laureati che possono tranquillamente essere messi in un percorso formativo e sarebbero sufficienti a garantire il turn over”.
Certo, attraverso un'adeguata programmazione. Ma nel frattempo come si affronta l’emergenza? In Veneto e in Molise, vorrebbero addirittura risolvere il problema assumendo i pensionati. A suo avviso è una soluzione?
“Io in verità l’ho definita una non soluzione. Ma soprattutto gli amministratori di queste regioni dovrebbero ammettere un dato: rivolgersi ai pensionati o agli stranieri significa riconoscere il fallimento totale della programmazione dei fabbisogni sanitari degli ultimi 10 anni. Chi fa questo, dunque, dovrebbe assumersi prima di tutto la responsabilità di dire: ho sbagliato, non ho previsto ciò che era prevedibile dieci anni fa, ed ora sono costretto ad assumere i pensionati. Quanto agli stranieri bisogna poi vedere se vogliono venire in Italia, visti i bassi trattamenti economici. In genere chi si sposta lo fa per andare nei sistemi sanitari dove le retribuzioni sono il doppio di quelle italiane”.
E per quanto riguarda i pensionati non tutti saranno disponibili a tornare al lavoro.
“Esatto. Perché il fenomeno che noi osserviamo è il contrario, è la spinta all’uscita, anche anticipata, dal servizio sanitario nazionale di tanti colleghi che non ne possono più. Arrivati intorno ai 62 anni, molti preferiscono giustamente andare via, indirizzarsi a un lavoro molto meno gravoso e pesante. Lasciarne uno fatto di reperibilità, turni infiniti, sforzi notturni che, sopratutto a una certa età, sfasano oltremodo i ritmi biologici, ma fatto anche di week end quasi sempre occupati e litigi per poter fruire di ferie. Tutti motivi per cui si sceglie di lasciare il lavoro. Se poi uno ha una professionalità da spendere sul mercato, preferisce una retribuzione nel settore privato, senza le gravosità del lavoro ospedaliero. Sì, credo ne troveranno proprio pochi".
E allora cosa si dovrebbe fare?
"Quel che andrebbe fatto è aprire il turn over, ma realmente, non con i 50 milioni che il governo vorrebbe mettere a disposizione per lo sblocco”.
Questa grave realtà quanto è conseguenza dei risparmi che si sono fatti nel settore?
“I dati sono ormai eclatanti. Le aziende sanitarie hanno risparmiato da 2 a 3 miliardi non assumendo in questi anni. Abbiamo - stando al conto annuale dello Stato - 46mila operatori in meno, tra i quali circa 10mila medici, veterinari e dirigenti sanitari. Solo in relazione a queste tre categorie la riduzione delle spese per le aziende sanitarie è stata di un miliardo. Eppure ora il governo vorrebbe mettere a disposizione solo 50 milioni, per recuperare le perdite pregresse. Ripeto: stiamo parlando di un miliardo risparmiato in questi ultimi anni dalle aziende. C’è poi un altro aspetto: la mancanza di specialisti ha determinato il prolungamento dei tempi di attesa. Queste infatti non sono legate alla influenza della libera professione, bensì alla mancanza di offerta, alla carenza di specialisti, anestesisti, biologi, radiologi. A questo sono dovute le attese”.
I tagli insomma hanno influito sull'efficienza del servizio?
“In realtà il settore è diventato il bancomat su cui intervenire, quello su cui le Aziende sanitarie e le Regioni hanno agito per riequilibrare il bilancio. Lo Stato de-finanziava, non forniva il flusso adeguato di finanziamento, e questa è la conseguenza. Qualcuno ha calcolato tale de-finanziamento, dal 2009 (inizio della crisi) ad oggi, in 37 miliardi. Di conseguenza cosa hanno fatto le Regioni? Hanno progressivamente ridotto il personale, gli infermieri e i medici. Ecco l’essenza del discorso”.
Questo limita ovviamente le prestazioni per i cittadini.
“Quando una equipe di chirurgia in un grosso ospedale si vede mancare la dotazione organica cosa fa? Per prima cosa si concentra sulle attività di alto profilo, sulla emergenza e urgenza, sulla chirurgia oncologica. La chirurgia minore, dalla colecisti all’ernia o alla protesi al ginocchio, viene rimandata, spostata in avanti, perché – salvo complicazioni – non mette a rischio la vita delle persone. Per cui si cominciano ad allungare le attese, prima a 3 mesi, poi a 6 e infine si arriva all’anno, e se non si interviene si giunge magari a due anni, come succede in Inghilterra”.
Esiste anche un problema di coordinamento efficace tra sistema sanitario pubblico e Università. Cosa si deve fare per recuperare il gap su questo terreno?
“Penso che il fabbisogno debba assolutamente tornare in mano al Ministero della salute. Ci vuole un accordo Stato–Regioni sul fatto formativo. All’università deve rimanere, ed è importante, il controllo della qualità della formazione. Ma il fabbisogno deve essere rimesso in capo al Ministero della salute, che deve agire in base ad accordi tra il livello statale e quello regionale, partendo dai dati a disposizione. Noi come organizzazione, con un computer e un accesso a Internet, il calcolo l’abbiamo fatto, riuscendo ad incrociare tutta una serie di data base. Dunque possono farlo tranquillamente anche il Ministero, o l’Ufficio competente, e le Regioni, calcolando il fabbisogno. E’ indispensabile avere il quadro a 5, 10 o anche 15 anni, agire, entrare in una logica di programmazione, in base ai modelli che vogliamo in qualche modo preservare o modificare e in base a quanto risulti come fabbisogno”.
Per introdurre efficacemente nel sistema i nuovi medici pensa sia necessaria anche una semplificazione delle procedure di assunzione, delle procedure dei concorsi?
“Certo. Esattamente. Su questo tuttavia abbiamo ottenuto un successo come organizzazione. Il fatto che finalmente gli specializzandi dell’ultimo anno possano partecipare, in base a una graduatoria separata, ai concorsi delle aziende è stata una vittoria di Anaao-Assomed che l’aveva sempre proposto. In questo modo si facilita l’ingresso nel mondo del lavoro di personale necessario, e va considerato che gli specializzandi in questione sono 6mila ogni anno e garantiscono un flusso specialistico molto importante per le sostituzioni”.