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La "zingarata" in ospedale finisce in tragedia: cena e selfie con il paziente che poi muore

Entra in ospedale per togliere le tonsille, prima dell’intervento anziché rimanere a digiuno va a cena con gli amici medici. Morirà 13 giorni dopo

Antonio Mennadi Antonio Menna   
La 'zingarata' in ospedale finisce in tragedia: cena e selfie con il paziente che poi muore

A volte basterebbe ascoltare i vecchi detti popolari, prima ancora del banalissimo buon senso, per impedire di creare danni, prima a se stessi e poi agli altri. Con la salute non si scherza, dicevano i nostri nonni, consapevoli di quanto fosse delicato e fragile il filo che ci tenesse collegati alla vita. Poi siamo diventati spacconi, un po' incoscienti, superficiali, forse con un senso di onnipotenza. Così, pensiamo di poter fare tutto. Anche giocare con la vita, e finire nella morte, com'è successo a un architetto viterbese, a una sua amica dottoressa, a tutta una equipe ospedaliera che affronta una operazione come fosse un gioco, e la trasforma in tragedia.

Un intervento banale

Gino Pucciarelli ha 49 anni, quando, nel 2015, decide di sottoporsi ad un intervento chirurgico alle tonsille. L'uomo - architetto di Viterbo - ha frequenti apnee notturne e vuole risolvere il problema. L'operazione non è urgente e sembra abbastanza di routine. L'architetto decide di affidarsi ad una sua amica, Maria Cristina Cristi, che lavora presso la clinica neurologica del Santa Maria della Misericordia di Perugia. Vanno asportati le tonsille e alcuni tessuti molli del palato. L'uomo viene ricoverato per prepararlo all'intervento. Entra così in ospedale.

La zingarata

Il problema è che dopo essere stato ricoverato, parte una zingarata goliardica della dottoressa, di altri amici, a cui partecipa lo stesso architetto, evidentemente inconsapevole dei rischi a cui va incontro. Prima dell'intervento deve stare digiuno. Ma gli amici organizzano un finto rapimento dall'ospedale per portarlo in giro a gozzovigliare e poi restiturlo nottetempo alla degenza. La cronaca, pubblicata sul Corriere dell'Umbria, e ricostruita rimettendo insieme le chat su whatsapp, ha dell'incredibile. 

Il finto rapimento

Il primo messaggio sul cellulare dell'architetto arriva alle 16.37 del 2 luglio 2015. Lo manda l'amica che dovrà operarlo. L'uomo è già ricoverato. «Gino, troverai una Punto grigia parcheggiata alla rotatoria. Quando esci dal reparto non avvisare nessuno e non voltarti. Se qualcuno ti chiama inizia a correre», scrive la dottoressa, diventendosi a simulare un tono da spy story. L'uomo obbedisce, scappa dall'ospedale e comincia la serata balorda.

Cacio e pepe

Il "ricoverato" in fuga viene portato dagli amici a fare la spesa, poi tutti a casa di uno di loro. Mangiano cacio e pepe, bevono prosecco, scattano foto divertite. Poi vanno a bere una birra al pub, si fa notte. Il giorno dopo c'è l'operazione ma la goliardiata continua, fino a quando il malato non viene restituito all'ospedale. L'uomo, infatti, recupera la sua postazione e aspetta l'operazione.

Selfie dopo l'intervento

Il clima goliardico continua il giorno dopo. La sala operatoria pronta, il malato intubato e le due amiche scattano un selfie. Il malato sorridente, il pollice in alto, il segno di vittoria. Tutto è andato bene. Foto anche alla tonsilla asportata. Missione compiuta. Ci sarebbe da sorridere, per il modo sciolto e rilassato con cui queste persone affrontano un momento complesso come un’operazione. Ma tra l'allegria e l'incoscienza, è un attimo. Il dramma è in agguato.

Il dramma

Tredici giorni l'operazione, l'architetto viterbese muore. Prima si sente male, torna ad essere ricoverato nell'ospedale dove era stato operato. Ha gravissime emorragie, inala sangue, poi un arresto cardiorespiratorio e il decesso. Una operazione di routine, banale, si trasforma in tragedia. Il caso, però, viene subito considerato come l'eccezione: la complicazione che sempre può avvenire quando ci si opera. Colpa di nessuno.

L'indagine

Invece, la famiglia dell'architetto vuole vederci chiaro. Un avvocato, Luca Mecarini, comincia una indagine difensiva e viene fuori lentamente il quadro che potrebbe aver causato la morte dell'architetto. Oggi la Procura di Perugia accusa cinque medici di aver causato colposamente la morte dell'uomo. Per la Pm Gemma Miliani, l'architetto è deceduto a causa di “negligenza, imprudenza e imperizia”.  “Nonostante - scrive il magistrato - fosse già ricoverato in reparto e nonostante la prescrizione preoperatoria del digiuno, si ‘organizzava’ l'uscita del paziente dall’ospedale, coinvolgendolo in una cena”.

"Uno scempio"

“Uno scempio disgustoso – ha detto l’avvocato Luca Mecarini al sito Tusciaweb -. Un comportamento aberrante, che mette in serio dubbio quello che succede all’ospedale Silvestrini di Perugia, soprattutto nelle sue sale operatorie. Indipendentemente dalle responsabilità penali, sui medici pendono gravissime responsabilità disciplinari: l’azienda ospedaliera prenda provvedimenti, altrimenti su incarico della famiglia denuncerò tutto al ministero”.

Un tempo per le cose serie

Ed eccoci tornati al punto iniziale, a quella linea rossa di confine tra il buon senso e l'incoscienza, alla sottile barriera che separa la leggerezza dalla sciocchezza, il gioco dal pericolo. Con la salute non si scherza, ripetevano i nostri nonni. Forse dovremmo tornare proprio lì, a riflettere di più su quello che facciamo, su come lo facciamo. C'è un tempo per i selfie, ce n'è uno per le cose serie. Se quei medici se lo fossero ricordato, avrebbero un problema in meno e un amico in più.

Antonio Mennadi Antonio Menna   
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