[Il commento] Sedici migranti “schiavi” morti in due giorni nei pulmini della morte
Le indagini e le perizie tecniche daranno risposte sulla dinamica dell’incidente. Magari documenteranno che il pulmino era “usurato”, non “a norma”, magari con i pneumatici consumati o i freni non perfettamente funzionanti. Se sopravvivono alla traversata del Mediterraneo, se non muoiono per il caldo nel deserto o per le percosse dei negrieri, ecco la (ingiusta) ricompensa per i braccianti migranti
Una strage in Capitanata. Foggia. Come sabato scorso. Lamiere contorte, un pulmino rovesciato, corpi straziati sull’asfalto coperti da lenzuola bianche. Corpi senza vita e per il momento senza identità. Pietà l’è morta da tanto tempo, ormai. È vero che ci si può anche appellare alla fatalità. Si è trattato di un incidente stradale, come ne avvengono tanti tutti i giorni. Questo poi, a differenza di quello di sabato con “solo” quattro morti diventati nel frattempo cinque, è stato terribile per le dimensioni: dodici morti e tre feriti.
Indietro di quarant'anni
Manca il fiato, solo a pensarci. Sedici, diciassette morti in due giorni. Terribile. All’improvviso è come se la rotazione della terra si fosse invertita e fossimo tornati indietro nel tempo, alla fine degli anni Settanta. Le vittime erano migranti, clandestini, braccianti. Stipati come sardine nel pulmino con targa bulgara, dopo una giornata di lavoro nei campi a raccogliere il pomodoro e sono morti per l’impatto del mezzo con un camion carico di farinacei. Le indagini e le perizie tecniche daranno risposte sulla dinamica dell’incidente. Magari documenteranno che il pulmino era “usurato”, non “a norma”, magari con i pneumatici consumati o i freni non perfettamente funzionanti. Oppure, individueranno le responsabilite dell’incidente per una manovra improvvida di uno dei due autisti.
Il sistema che tollera il caporalato
Qualsiasi verità giudiziaria non potrà nascondere che queste morti non sono una fatalità o non sono solo vittime di un incidente stradale. Sono invece morti che pesano sulla coscienza di un sistema che convive se non tollera il caporalato e il lavoro nero, sommerso, dei braccianti clandestini. Quante inchieste della magistratura hanno documentato che braccianti “bianchi o bianche” ricevevano regolarmente la busta paga, salvo poi scoprire che le stesse o gli stessi braccianti venivano costretti a restituire una parte del loro salario. Un tacito scambio sotto ricatto per le lavoratrici o i lavoratori che si ritrovavano una busta paga “alleggerita” ma in cambio quei contributi magari anche per giornate non fatte che garantivano una specie di cassa integrazione per i braccianti. Ma per i lavoratori africani, romeni o bulgari tutto questo non c’è. Non possono sperare negli ammortizzatori sociali garantiti ai bianchi. Devono vedersela con il mercato delle braccia.
La memoria del sindacalista
«E oggi? Stiamo tornando alla fine degli anni Settanta - commenta Angelo Leo, segretario dei metalmeccanici della Cgil di Brindisi, fino a ieri sindacalista dell’agroalimentare e profondo conoscitore del fenomeno del caporalato in Puglia - quando le nostre braccianti morivano sulle strade. I pulmini guidati dai caporali erano stracolmi di ragazze che andavano nei campi a raccogliere l’uva magari nel metapontino. Pulmini che si trasformavano in carri armati, in proiettili difficilmente governabili di fronte a una frenata brusca o a un imprevisto». Leo ricorda le lotte sindacali per imporre il trasporto pubblico per le braccianti, come politica concreta di contrasto al caporalato. E per un certo periodo questa politica ha avuto successo. E i pulmini sono spariti. Se poi nel tempo non più pubblici, autobus moderni li hanno sostituiti riducendo (quasi) a zero gli incidenti stradali. Ma oggi che l’aria che tira addirittura è quella di volere abrogare la legge sul caporalato entrata in vigore alla fine del 2016, è come se la direttiva implicita del governo di allentare i controlli sia stata recepita dalle forze di polizia.
Quei "gusci" pieni di morte
E sono tornati i pulmini. Sfruttati, trattati come appestati, indesiderati. Se sopravvivono alla traversata del Mediterraneo, se non muoiono per il caldo nel deserto o per le percosse dei negrieri, ecco la (ingiusta) ricompensa per i braccianti migranti. «Ieri, i braccianti neri venivano reclutati sulle rotonde dei paesi e raggiungevano la campagna a piedi o con le biciclette. Oggi - spiega Angelo Leo - che una certa attività di controlli è venuta meno, ecco spuntare di nuovo i pulmini».
Chissà se quei braccianti neri che in questi due giorni hanno perso la vita sapevano che il governo Salvini-Di Maio voleva cacciarli, espellere subito. Clandestini da cancellare, lavoratori da dimenticare. Il ministro per le politiche agricole, Gian Marco Centinaio, è stato il primo ad annunciare che la legge contro il caporalato andava cancellata e a ruota il compagno di partito, il segretario della Lega e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha puntato l’indice contro una legge che «invece di semplificare, complica».
L'oro rosso
Queste morti le abbiamo anche noi sulla coscienza perché sono i corpi senza vita sull’asfalto di una strada della Puglia sono vittime del lavoro nero. Non possiamo non partire da questa verità. Braccianti africani che tornavano da una giornata di lavoro per la raccolta del pomodoro, in Capitanata, l’ex “granaio d’Italia”, i cui terreni oggi producono l’”oro rosso”, quel pomodoro che viene subito spedito nelle industrie della trasformazione della vicina Campania.