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La lenta asfissia della sanità pubblica, nonostante il bilancio sia in equilibrio. Vi spiego perché

Il problema è il numero e la stessa disponibilità delle prestazioni, forse soprattutto proprio le più ordinarie, progressivamente strangolate dall'austerità degli ultimi 15 anni

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
La lenta asfissia della sanità pubblica, nonostante il bilancio sia in equilibrio. Vi spiego perché

Il bilancio della sanità pubblica è in equilibrio. Il rovescio della medaglia di questa vittoria finanziaria, a lungo inseguita, è la sua lenta asfissia. Il Servizio sanitario nazionale, oggi, non è più né universale, né gratuito: ancor più di scuola e pensioni, è diventato lo specchio del progressivo ridimensionamento del sistema nazionale di welfare, faticosamente costruito quaranta anni fa. Non è in discussione il livello delle prestazioni delle strutture pubbliche, soprattutto al top della professione: il tasso di mortalità nei 30 giorni dopo un infarto è, negli ospedali italiani, fra i più bassi d'Europa. Il problema è il numero e la stessa disponibilità di queste prestazioni, forse soprattutto proprio le più ordinarie, progressivamente strangolate dall'austerità degli ultimi 15 anni.

I conti sulla spesa

La spesa sanitaria pubblica italiana assorbe oggi il 6,5 per cento del Pil. Il governo giallorosso, nell'ultima Finanzaria, ha invertito una tendenza decennale, ma la correzione è ancora appena avvertibile e la distanza con gli altri paesi resta sensibile. Francia e Germania dedicano alla sanità pubblica il 9 per cento del Pil, anche la Gran Bretagna (il cui National Health Service è al centro di critiche feroci) è al 7,5 per cento. Il gap è l'effetto diretto della contrazione degli ultimi 15 anni. Fra il 2001 e il 2005, la spesa sanitaria pubblica cresceva del 7,4 per cento l'anno. Fra il 2006 e il 2010 la velocità si è ridotta al 3,2 per cento, ma, nei cinque anni successivi la crescita si è rovesciata in riduzione secca: nel 2013, la spesa pubblica per la salute è diminuita di quasi l'1 per cento.

I risultati si misurano in numeri. Oggi, i posti letto negli ospedali italiani sono circa 3,2 ogni mille abitanti, contro la media europea di 5. Rispetto al 2009, nel 2017 c'erano oltre 46 mila, fra medici e infermieri, in meno nelle corsie e negli ambulatori: 6 mila medici e 27 mila infermieri depennati, rispetto agli organici di dieci anni fa. E l'emergenza, in realtà, deve ancora venire. Entro l'anno prossimo, lasceranno il Ssn quasi 23 mila medici, un quarto del totale oggi in servizio, in misura significativa grazie alle agevolazioni pensionistiche di quota 100.

Il buco drammatico è quello dei medici di base, il cui numero si ridurrà, nei prossimi cinque anni, di 15 mila unità, lasciando 14 milioni di italiani (un quarto della popolazione) senza copertura. In prospettiva, una bomba sociale, innescata da paradossi come l'imbuto delle scuole di specializzazione, che lascia senza possibilità di esercitare oltre 8 mila neolaureati. Il governo che si è insediato questa estate se ne è, almeno, accorto e sta tentando di tamponare la situazione, ma le risorse restano limitate: nel 2020, la spesa pubblica per la sanità assorbirà, invece del 6,5 per cento del Pil, il 6,6.

Lo stato di salute degli italiani, tuttavia, non è crollato ed è mediamente paragonabile a quello dei paesi a noi vicini. Eppure, la spesa pro capite del Servizio sanitario italiano è pari a 2.404 euro l'anno. In Francia, in Germania, in Gran Bretagna, questa stessa spesa pro capite corrisponde a 3-4 mila euro l'anno. Come è possibile che il divario resti senza conseguenze, in un momento, tra l'altro, in cui la salute, grazie anche ai progressi tecnologici, diventa sempre più costosa?

Il buco colmato dalla sanità privata

Semplice, la spesa sanitaria totale, in Italia, è di quasi 150 miliardi e corrisponde, infatti, all'8,9 per cento del Pil, perfettamente in linea con le quote che si registrano in Francia e in Germania. A colmare il buco, però, da noi, è la sanità privata, a cui versiamo, ormai, ogni anno, oltre 37 miliardi di euro, appunto un po' più del 2 per cento della ricchezza prodotta dal paese. Di fatto, il servizio pubblico, universale e gratuito copre ormai solo il 75 per cento della spesa sanitaria nazionale. Le strutture private (dal singolo professionista alle cliniche) assorbono, quindi, un quarto della domanda nazionale di salute. Quasi il 40 per cento di questa spesa privata è per l'acquisto di farmaci, senza la ricetta rossa del Ssn. Altrettanto va per cure (oltre metà delle spese per i medici finisce ai dentisti) e riabilitazioni. Un 10 per cento è destinato a coprire l'assistenza per malattie croniche.

I dati, dicono gli economisti del settore, non consentono di capire se questa spesa serva a garantire prestazioni integrative di interventi della sanità pubblica (tipo analisi, fisioterapie) o direttamente sostitutive (come è certamente il caso per dentisti e badanti). L'elemento cruciale, tuttavia, è forse un altro. Nella situazione italiana, l'intervento di mutue e assicurazioni è assolutamente marginale. La quasi totalità di questa spesa sanitaria privata (il 91 per cento, 35 miliardi di euro nelle prime stime Istat sul 2019) è, come dicono gli economisti, “out of pocket”. Ovvero, sono soldi che vanno direttamente dai portafogli delle famiglie a quelli degli operatori privati, senza l'intervento di alcun intermediario. Non ci sono quasi mai, cioè, fondi o assicurazioni che, da un alto, valutino la congruità dell'intervento, dall'altro, grazie ad un maggior potere contrattuale, ne contengano il costo. Il consumo sanitario autogestito comporta il rischio dello spreco in visite ed esami, ma anche di essere taglieggiati da operatori privi di qualsiasi controllo.

A prima vista, questo fiume di denaro segue un percorso inaspettato. La regione in cui la spesa privata per la sanità è più alta è la Lombardia. Insomma, si spende di più nelle regioni più ricche e, in realtà, meglio servite dalla sanità pubblica. Secondo gli economisti del sito lavoce.info, il motivo non è nella qualità della prestazione, ma nel rapporto squilibrato che la sanità pubblica offre fra disponibilità della prestazione e il suo costo (in termini di ticket). I tempi di attesa, nella sanità pubblica, possono essere, infatti, anche dieci volte più lunghi di una struttura privata, mentre il costo raramente supera le due-tre volte, rispetto al ticket della Asl.

E, tuttavia, il picco della sanità privata in una delle regioni con il più alto standard di sanità pubblica non esaurisce la serie di paradossi. Infatti, la frammentazione del sistema della salute italiano – in linea di principio universale e gratuito per tutti - non finisce con la divaricazione fra una sanità pubblica che si restringe, davanti all'avanzata della sanità privata. C'è anche una netta frattura fra i livelli di sanità pubblica a cui accedono gli italiani, a seconda delle regioni in cui vivono. In altre parole, c'è una differenza, in materia di tutela della salute, non solo fra i ricchi in generale, che possono permettersi la sanità privata “out of pocket” e poveri, che ne sono esclusi. Ma anche fra ricchi calabresi, che possono permettersi di attingere (con tutte le spese connesse) alla sanità pubblica, ma in Piemonte, e calabresi poveri, che devono accontentarsi della Calabria.

L'elaborazione dei Lea, i livelli essenziali di assistenza, che dovrebbero essere equiparati nelle diverse regioni, fa parte dei lavori in corso nella sanità pubblica. Secondo gli ultimi dati ufficiali, comunque, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto sono le regioni con la sanità più efficiente, ma solo Campania e Calabria sarebbero al di sotto del livello minimo dei Lea. Fino a ieri, però: il nuovo sistema di valutazione dei Lea, appena adottato, porterebbe, infatti, a risultati molto diversi e assai meno confortanti. Ad un recente convegno, organizzato al Cnel dal Diario del lavoro, sono state rilanciate indiscrezioni, non smentite, in base alle quali, le regioni il cui servizio sanitario non raggiunge i Lea non sarebbero 2, ma addirittura 12 su 21.

E' uno squilibrio che chiama in causa diritti, principi, uguaglianze, risorse. Ma anche tempi, perché questo è un divario che si autoalimenta e cresce in conseguenza. Il risultato dei diversi livelli di qualità e di assistenza è che, in Italia, un decimo dei ricoveri in ospedale avviene al di fuori delle regioni di residenza. Stiamo parlando di soldi: sono 4,6 miliardi di euro che, ogni anno, passano dalle regioni più povere e peggio servite dal Servizio sanitario nazionale a quelle più ricche e meglio dotate. Una spirale perversa, in cui i poveri diventano più poveri e i ricchi dispongono di sempre maggiori risorse per attirare nuova domanda.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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