[L’analisi] Regeni, una patente italiana al generale Al Sisi e la ricerca della verità è finita
Sul caso di Giulio Regeni questo governo è ancora più compromissorio di quello precedente e rilascia al generale Al Sisi una sorta di patente di immunità. La realpolitik prevale sulla verità che non uscirà mai da questo regime, come era evidente sin dall’inizio. Del resto l’Italia aveva il suo dittatore in Gheddafi e nel 2011 lo ha bombardato: perché mai gli altri raìs si dovrebbero fidare di noi?
In poche parole su questa vicenda, dopo la visita di Di Maio, sembra che cada una pietra tombale: il caso sul piano umano e giudiziario è ovviamente ancora aperto ma su quello politico internazionale si tratta di una vicenda finita.
Era quello che in fondo si voleva. Al di là delle dichiarazioni speculative per fini politici interni, anche nel governo Gentiloni le posizioni erano diverse perché si percepiva che la rottura con l’Egitto non era possibile che durasse all’infinito, come dimostra del resto il ritorno nel 2017 dell’ambasciatore italiano al Cairo. L’Egitto è un Paese chiave per la stabilizzazione della Libia e sostiene il generale Khalifa Haftar, appoggiato dalla Francia, dalla Russia, dagli Emirati. Il Cairo si gioca una partita chiave in Cireanica per due motivi: vuole avere una sorta di fascia di sicurezza in Libia ed è decisamente contrario al governo di Fayez Sarraj a Tripoli, tenuto in piedi essenzialmente da milizie legate ai Fratelli Musulmani e ai salafiti, i nemici del generale Al Sisi e di un fronte internazionale molto ampio.
Ora l’Italia in Libia cerca un difficile riposizionamento. Ha sostenuto il governo di Tripoli, in parte correttamente perché riconosciuto dalla comunità internazionale, ma ormai si è accorta che nessuno lo appoggia realmente proprio per la presenza degli islamisti. Nei giorni scorsi si è avuta con l’ennesima rivolta delle milizie e la prova che Sarraj è assai fragile: in un anno si saranno stati almeno una decina di episodi del genere, seguiti per altro da tregue precarie. Roma deve quindi arrivare a un altro compromesso, dopo quello raggiunto con Al Sisi, anche con il generale Haftar che controlla i terminali per l’esportazione di petrolio ed è l’uomo che ambisce alla presidenza di tutta la Libia.
L’Italia reclama da sempre una posizione di preminenza sulla Libia ma l’ha persa tragicamente nel 2011 con i bombardamenti su Gheddafi, il suo principale alleato nel Mediterraneo: se non si fosse unita ai raid della Nato oggi la situazione sarebbe forse differente. Rimediare agli errori in politica estera non è facile quando si perde credibilità.
Sia questo governo che quelli precedenti hanno chiesto agli Stati Uniti una sorta di “investitura” per guidare la stabilizzazione libica: a parole ci è stata data ma nei fatti è stata la Francia a menare le danze. La sbandierata conferenza sulla Libia, che dovrebbe svolgersi nei prossimi mesi a Roma, potrebbe risolversi, in un altro flop: per questo adesso si deve fare la pace con Al Sisi e negoziare anche con Haftar. Il caso Regeni rientra in questo quadro.
Le considerazioni dal punto di vista umano sono assai amare: abbiamo la consapevolezza che su Regeni non otterremo né giustizia né verità. Possiamo recriminare quanto vogliamo sulla mancanza di solidarietà internazionale ed europea, sul cinismo degli inglesi e l’opportunismo dei francesi, ma dobbiamo renderci conto che nel 2011 l’Italia ha subito in Libia la più grave sconfitta dal dopoguerra e un’ondata di destabilizzazione che con l’immigrazione ha portato allo sconvolgimento del quadro politico interno.
In questo senso l’Italia è il Paese non arabo che ha pagato di più le primavere arabe e adesso si profila anche una profonda crisi con l’Unione europea. Certo non è come alleati come l’Ungheria che andremo lontano nel proteggere i nostri interessi: ha un’aviazione con 14 cacciabombardieri e metà non si alzano in volo. Ma forse preferiamo l’operetta cantata da tenori leggeri. Le tragedie come quella di Regeni non fanno per noi.