[La polemica] La Raggi lapidata dai giornalisti e l’insulsa difesa della categoria

Quanto sono ridicoli quei tesserini esibiti sui social. Cari colleghi giornalisti facciamoci un esame di coscienza. Tutti noi che pontifichiamo siamo davvero innocenti? Con quale credibilità in questi giorni posso leggere dei bellissimi commenti sull’etica e i peccati del nostro giornalismo, su un giornale che fino all’altro ieri chiamava un imputato bimbominchia, psiconano, banana? Possiamo ancora stupirci del becerume dei social se i primi a sdoganare gli insulti al posto delle notizie siamo stati noi?

Virginia Raggi
Virginia Raggi

«Vorrei sommessamente ricordare alcuni titoli di giornali sulla Raggi. "La vita agrodolce della Raggi. Patata bollente". "Oca del Campidoglio". "La marchesa del Grillo fatta a pezzi dalle correnti". "La bambolina e il vertice farsa". "Hanno perso la Virginità". La verità non sta mai da una parte sola. Pensiamoci ogni tanto. Tutti quanti. Questi titoli li hanno fatti i giornali. Ma io non ci vedo molto giornalismo». Ho scritto questo post su facebook perché io sono un giornalista iscritto all’Ordine. E non sono mai stato un santo.

Di mestiere ho cercato di fare il testimone della vita, per poterla raccontare agli altri. Badate bene: della vita. Non della verità, perché la verità non è mai solo di una persona, devi cercarla, ma devi essere consapevole che quella che trovi è solo quella che hai visto e sentito tu. Non è una cosa così straordinaria fare il nostro mestiere. E’ difficile come tutti i mestieri. Niente di più. Però richiede una cosa particolare che devi dimostrare ogni volta se vuoi essere credibile: la correttezza. Erano corretti questi titoli? E’ stato corretto attribuire a Viriginia Raggi relazioni con Raffaele Marra, Salvatore Romeo e Daniele Frongia? E’ stato corretto attaccarla con beceri toni sessisti? Far credere che la sindaca girasse con borsette da 9mila euro quando non era vero?

Siccome per me non lo era, io credo che sia quantomeno improprio e sbagliato difendere a spada tratta, senza se e senza ma, la categoria. Io l’esame di coscienza voglio farmelo. Ogni volta ho paura di sbagliare, perché so di averlo fatto. Non sono un santo e non appartengo a una categoria di santi e intoccabili. Sono uno che si sporca le mani, perché a volte non posso farne a meno per ottenere quello che cerco.

Difendo la categoria dagli insulti di politici e ministri che si mettono allo stesso livello di quei titoli, perché la verità non è di nessuno, ma la decenza è un dovere di tutti, e soprattutto di quelli che hanno l’onere di governarci. Ma non difendo la categoria perché abbiamo sempre ragione. E non voglio fare come loro, come quelli che ci insultano e fanno di tutte le erbe un fascio. Però, se non voglio che sparino nel mucchio, non devo farlo nemmeno io. E’ una questione di dignità, che riguarda tutti. E allora facciamolo fino in fondo l’esame di coscienza alla nostra categoria. E riguarda tutti, al di qua e al di là di una barricata. Forse non è un caso che la maggior parte di quei titoli appartengano a giornali schierati con una metà del governo. Fuori dal governo l’altra metà è un nemico da abbattere? Perché deve prevalere sempre solo l’appartenenza sulla decenza? Che cosa c’entra tutto questo con l’informazione? E tutti noi che pontifichiamo siamo davvero innocenti?

Con quale credibilità in questi giorni posso leggere dei bellissimi commenti sull’etica e i peccati del nostro giornalismo, su un giornale che fino all’altro ieri chiamava un imputato bimbominchia, psiconano, banana? Possiamo ancora stupirci del becerume dei social se i primi a sdoganare gli insulti al posto delle notizie siamo stati noi? Abbiamo dei conduttori e degli intervistatori televisivi che abbiamo sempre disprezzato per il loro servilismo, che adesso improvvisamente rizzano la schiena per difendere la categoria come se fossero dei soldati della verità. Mi inchino ogni volta che me lo chiedi, ma guai se mi dici che sono un servo. Non vi sembra ridicolo tutto questo?

Ebbene, io non ci sto. Io ho peccato. E lo confesso. Appartengo a una categoria di peccatori. E molte volte ho provato vergogna. E me ne vergogno in questi giorni, per questa levata di scudi non in difesa della libertà di stampa, che siamo i primi a rinnegare tutte le volte che facciamo i leccaculo, ma per l’onore della categoria, per questa stupida e insulsa immagine che abbiamo di noi stessi, per tutti i tesserini esibiti sui social come degli eroi, per questa parata di nullità, per quelli che ci credono davvero e per quelli più furbi di me.

«I giornalisti che vergogna! Cosa mettiamo oggi in prima pagina? Ma sì un po’ di bambini stuprati. E’ un periodo che funzionano. Mi fanno male le loro facce presuntuose e spudorate, facce libere e indipendenti ma estremamente rispettose dei loro padroni, padroncini, facce da grandi missionari dell’informazione che il giorno dopo guardano l’indice di ascolto... Questi coraggiosi leccaculo travestiti da ribelli. E questa libertà di informazione che mi fa vomitare». Lo diceva Giorgio Gaber tanti anni fa. Forse non siamo molto cambiati. Forse dovremmo chiederci perché. Magari faremmo meglio a pensarci sopra.