Caro Ministro, spero ancora non per molto, Poletti. Lei ci ha dimostrato che in Italia si trova lavoro solo con le amicizie
Lei è sincero. Dà fiato al cuore, non all’astuta diplomazia del politico che non dice mai quello che pensa. Lei lo pensa davvero che quelli che se ne vanno all’estero sono delle mezze calzette: fossero furbi avrebbero trovato il modo per restare, no? Per infilarsi da qualche parte a lucrare qualche rendita. Diciamocelo, che fessi

Le scrivo con un po’ di imbarazzo perché mi sembra di tirare palle di stoffa ai barattoli del Luna park, con il problema che con lei non si vince nulla. Ma dopo la sua ultima, spero davvero, uscita sul calcetto sento il bisogno di ringraziarla, per aver finalmente illuminato le ragioni della mia sconfitta generazionale.
In effetti, avevo il sospetto che qualcosa non avesse davvero funzionato nella mia vita. Alla mia brillante età, nell’Italia dell’oro, si pascolava placidi in qualche ufficio pubblico a prendere stipendi, tredicesime, straordinari, indennità aggiuntive, con il solo obbligo di timbrare un cartellino e prepararsi alla pensione comoda, bella alta, col corpo ancora tonico, per godersela a lungo.
Nell’Italia di oggi, invece, ci si sente così giovani, anche passati i quaranta, perché i contratti brevi ti allungano la vita: è talmente frizzante questa esistenza con lavoro in nero, partite iva, collaborazioni occasionali, cococo e cocopro in estinzione, pensi che mi propongono anche sostituzioni mensili, come fossero la grande chance, e addirittura qualche stage.
Non ti vuoi sentire giovane, quando ti propongono uno stage passati i 40 anni?
Ma non è questo il punto. Io mi sono diplomato con la caduta del muro di Berlino, laureato con Maastricht, mi sono affacciato al lavoro con la legge Biagi, mi hanno detto dai, è la gavetta, poi ti sistemi. Solo che è arrivato l’euro, la prima crisi, mi dicevano tieni duro, resisti. Ho resistito ed è arrivata la seconda crisi, che non finisce. Tutto passa, ma io sto ancora qua che aspetto. Cosa? Il futuro.
Alcuni amici mi chiedono “Ma Poletti ci è o ci fa?”. Io ho risposto che lei, signor Ministro spero non per molto, ci è. Secondo me, alla fine, è sincero. Dà fiato al cuore, non all’astuta diplomazia del politico che non dice mai quello che pensa. Lei lo pensa davvero che quelli che se ne vanno all’estero sono delle mezze calzette: fossero furbi avrebbero trovato il modo per restare, no? Per infilarsi da qualche parte a lucrare qualche rendita. Diciamocelo, che fessi.
E lei lo crede davvero che le pubbliche relazioni sono tutto. In fondo ha ragione. Una mano lava l’altra. A Frà, che te serve? Tu mi sistemi mio figlio, io ti sistemo il tuo. Vedi un po’, ho questo ragazzo, trovagli qualche cosa da fare. L’Italia dei cachi, diceva Elio con le sue storie tese. I circoletti, le combriccole, i furbetti, gli scambi, i favori, le raccomandazioni, le clientele, le amicizie, i clubbini riservati. Lei la chiama questione fiduciaria. E certo. Bisogna fidarsi delle persone che si assumono. Il punto è che nei Paesi seri la fiducia si conquista sul campo, ma non quello delle merende e delle parrocchiette e degli amici degli amici. Sul campo di lavoro, mettendo le persone alla prova, misurandole sui fatti, apprezzandone i risultati, i valori, perfino le sconfitte e le cadute se sono state occasioni dignitose di messa in discussione degli errori, di nuovi apprendimenti. Nei Paesi seri il curriculum si compila con attenzione, ci si laurea bene, si studia ancora, si punta sui titoli e sulle esperienze, e chi sceglie, li legge i curricula, perché chi sceglie distribuisce le opportunità non sulla base della conoscenza personale o della segnalazione dell’amico dell’amico, ma sulla base di quello che nella vita delle persone c’è scritto. Sulle persone si scommette. Poi c’è la prova-realtà, certo. Senza sconti e senza rendite. I paesi seri hanno mercati del lavoro spietati ma competitivi, aperti, dinamici. Dove se uno vale, lo spazio lo trova. E se non vali, devi provare a valere, almeno in qualcosa, almeno nel tuo qualcosa devi essere un valore. Sennò, niente. Duro ma giusto.
In Italia non è così, ci ha detto lei. Qui contano le amicizie giuste. E’ vero. Ha ragione. Ce ne siamo accorti. Solo che da un Ministro ci aspettavamo un impegno a cambiarle, le cose. Non a registrarle passivamente, o addirittura a consigliare l’adattamento. Il fatto è che anche questa è una colpa. Credere ancora che qualcosa cambi. Lei, col suo vocione paterno e la sua figura rassicurante, mi direbbe ragazzo mio, ma quale cambiamento, scegliti l’amico giusto, trova un contatto, parla, muoviti, entra nei giri. Cosa stai lì a studiare, scrivere, sperare?
La ringrazio, signor Ministro spero ancora per poco Poletti, per avermi aperto gli occhi e fatto almeno capire dove ho sbagliato. E’ troppo tardi, credo, ma almeno ora lo so. Il problema della mia vita è che a calcetto ho sempre giocato nella squadra degli sfigati.