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Il gran giorno del giudice "ragazzino": Livatino martire della giustizia e della fede

Indicato come modello credibile dei magistrati da Francesco che al Regina caeli lo chiama difensore della legalità e della libertà. Appello per la pace a Gerusalemme e in Afghanistan

Carlo Di Ciccodi Carlo Di Cicco   
Rosario Livatino e Papa Francesco (Ansa)
Rosario Livatino e Papa Francesco (Ansa)

Mentre il presidente della Repubblica tenta di arginare il polverone su giustizia, politica, magistratura e affari che scuote ancora una volta l’Italia, è giunto il gran giorno del “giudice ragazzino” proclamato ufficialmente beato a mostrare un diverso modo di pensare e agire per il bene del Paese.  Papa Francesco lo ha definito oggi difensore della legalità e della libertà. Rosario Livatino, 38 anni, ucciso dalla mafia nel giorno di fine estate del 1990, primo giudice cui va un riconoscimento morale tanto alto, ha pagato con la vita una linea di condotta rigorosa cui restò fedele da cittadino e da cristiano.

“Il Giudice – aveva dichiarato egli stesso in un pubblico dibattito alcuni anni prima di essere ucciso - deve offrire di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società: questo e solo questo è il Giudice di ogni tempo. Se egli rimarrà sempre libero ed indipendente si mostrerà degno della sua funzione, se si manterrà integro ed imparziale non tradirà mai il suo mandato”.

Limpido era stato ugualmente su un altro punto, motivo ricorrente di scontro politico: “Sarebbe sommamente opportuno – sosteneva - che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l'ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario”. E quello che dichiarava, Rosario lo applicò alla sua vita.

Una linea di pura coerenza che farebbe riacquistare in un sol colpo credibilità alla magistratura, autorevolezza nei confronti di una politica faccendiera, fiducia nella giustizia. Nel giorno della beatificazione è apparsa un’evidente sintonia tra Papa Francesco e il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del dicastero vaticano per le cause dei santi, che nella cattedrale di Agrigento ha presieduto il rito solenne della beatificazione del giovane magistrato. All’unisono hanno evidenziato il nucleo dell’eredità spirituale di Livatino: restare nell’amore per coerenza al Vangelo. “Amare come Cristo significa – secondo Francesco - dire di no ad altri “amori” che il mondo ci propone: amore per il denaro – chi ama il denaro non ama come ama Gesù –, amore per il successo, la vanità, per il potere…. Queste strade ingannevoli di “amore” ci allontanano dall’amore del Signore e ci portano a diventare sempre più egoisti, narcisisti, prepotenti. E la prepotenza conduce a una degenerazione dell’amore, ad abusare degli altri, a far soffrire la persona amata. Penso all’amore malato che si trasforma in violenza – e quante donne sono vittime oggigiorno di violenze. Questo non è amore”.

E la vita di Livatino ha puntualizzato Semeraro nell’omelia di beatificazione, non è stata  “una vita sdoppiata ma sempre trasparente, limpida e, perciò, anche affidabile e amabile”. Agli occhi di Dio “ciò che conta non è la professione di una fede fatta con le parole, bensì la pratica della giustizia: una giustizia che non si limita a dare a ciascuno il suo, secondo la normale legge dell’equità, bensì è sostenuta dalla credibilità di chi per la giustizia si compromette sino a dare la vita nella sua attuazione…Credibilità e giustizia stanno e cadono insieme: senza la giustizia, la credibilità diventa improduttiva; e senza la credibilità, la giustizia rischia di approdare nel giudizio. Giustizia e credibilità sono inseparabili nella condotta del martire poiché entrambe scaturiscono dalla fede e non da una semplice istanza etica”. Cristo poi ha trasformato “la giustizia in compassione o misericordia per gli esseri umani”.

Questo è il segreto della santità, afferma Semeraro, anche nel caso di Rosario Livatino: “Rimanere nell’amore di Cristo. È un verbo davvero decisivo, questo rimanere. La fecondità della vita cristiana è condizionata da questo rimanere nell’amore di Cristo ed è il frutto di questo rimanere. Qui, però, per un cristiano c’è anche il grave rischio d’essere all’interno di questo abbraccio amoroso del Signore e, ciononostante, di non portare alcun frutto. Si cade, allora, in quel «nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze», di cui ha scritto papa Francesco nella Lettera enciclica Fratelli tutti. È una situazione che si fa drammaticamente evidente nei momenti di crisi, nei momenti in cui «essere cristiani» non è più qualcosa di scontato e diventa, anzi, cosa scomoda, schernita, rischiosa, pericolosa”. Cosciente di questo rischio, Livatino realizzò “la coerenza piena e invincibile tra fede cristiana e vita”, acquistando credibilità. Rivendicò, infatti, l’unità fondamentale della persona; “una unità che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale. Questa unità Livatino la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l’unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano. Per questo la Chiesa oggi lo onora come Martire”. Tra le carte di Livatino è stato trovato un appunto che ne conferma la visione esistenziale di fondo: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili“.

Senza scorta era a bordo della sua vecchia Ford Fiesta color amaranto, sulla Statale 640 Caltanisetta-Agrigento, quando fu speronato dall'auto dei quattro killer. Tentò una fuga a piedi attraverso i campi limitrofi ma, già ferito da un colpo ad una spalla, fu raggiunto dopo poche decine di metri e freddato a colpi di pistola. Non tirava aria buona in quegli anni per i giudici impegnati nella lotta alla mafia e nel mezzo delle polemiche contrapposte, per screditarli, fu coniata l’espressione “giudici ragazzini”, ossia giovani e inadeguati. Livatino con la competenza e con il sacrificio della vita è divenuto l’emblema di giudice specchiato, competente tanto da far tremare potenti cosche.

Oggi sono in tanti a celebrarlo. Quando fu ammazzato le polemiche erano accese intorno al che fare e come farlo nella lotta alla mafia e i giudici in prima linea non riscuotevano unanimi consensi. Solo due anni dopo la sua uccisione, si registrò il culmine dello scontro tra Stato e mafia con gli attentati contro Falcone, Borsellino, la notte delle bombe a Roma, Milano, Firenze. Nel 1993, dopo aver incontrato i genitori di Livatino, papa Wojtyla pronunciò la terribile filippica contro la mafia nella Valle dei Tempi di Agrigento. E anni dopo Francesco parlò di scomunica nei confronti di mafia, ‘ndrangheta e associazioni criminali. Livatino come altre vittime della mafia ha contribuito a far compiere passi avanti nella coscienza civica dell’Italia. Ma il traguardo è ancora lunga. “La mafia – ha puntualizzato il cardinale Francesco Montenegro di Agrigento - non è solo quella delle stragi, ma è anche quella del silenzio, delle ingiustizie, delle raccomandazioni, delle scorciatoie ai danni dei più deboli. Anche questa mafia uccide. Dobbiamo chiederci se davvero abbiamo preso le distanze dalle mentalità mafiose, così diffuse sulla nostra terra, altrettanto pericolose quanto la violenza del diavolo“. Livatino non può restare “un santino” ma l’esempio di un impegno attivo.

Non è un caso che papa Francesco con il ricordo di Levatino ha puntato i riflettori su altri contesti di violenza che non si riesce a estirpare. “Seguo – ha detto dopo la recita del Regina Caeli - con particolare preoccupazione gli eventi che stanno accadendo a Gerusalemme. Prego affinché essa sia luogo di incontro e non di scontri violenti, luogo di preghiera e di pace. Invito tutti a cercare soluzioni condivise affinché l’identità multireligiosa e multiculturale della Città Santa sia rispettata e possa prevalere la fratellanza. La violenza genera solo violenza. Basta con gli scontri.

E preghiamo anche per le vittime dell’attentato terroristico avvenuto ieri a Kabul: un’azione disumana che ha colpito tante ragazzine mentre uscivano da scuola. Preghiamo per ognuna di loro e per le loro famiglie. E che Dio doni pace all’Afghanistan”. Francesco nel ricordo della beatificazione di Rosario Angelo Livatino, lo ha definito “martire della giustizia e della fede. Nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo, che non si è lasciato mai corrompere, - ha detto il papa - si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere. Il suo lavoro lo poneva sempre “sotto la tutela di Dio”; per questo è diventato testimone del Vangelo fino alla morte eroica. Il suo esempio sia per tutti, specialmente per i magistrati, stimolo ad essere leali difensori della legalità e della libertà”.

Carlo Di Ciccodi Carlo Di Cicco   
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