[La storia] Il giovanissimo operaio malato di tumore abbandonato dall'Inps e salvato dal proprietario della fabbrica
Pagherà lui, ogni mese, il sussidio che l'Inps non riconosce più a Steven. Finché il ragazzo non sarà guarito e finché non potrà tornare al lavoro, sarà tutelato. “Ci penso io”, dice De Lucia, “il posto è suo e continuerò a pagargli lo stipendio così potrà curarsi con serenità”

Qualche nostalgico della lotta di classe li chiama padroni. Finendo col sottolineare, in realtà, la natura di schiavo di chi lavora. Padroni come usurpatori. Padroni come rapaci cercatori di profitto. Padroni come disumani sfruttatori del lavoro altrui. Padroni, quindi, da combattere. Ma il mondo è molto più articolato di chi vuole ingabbiarlo in categorie ormai consumate. E ogni tanto la realtà vera, quella della vita e della fatica quotidiana, si incarica di ricordarcelo.
Un'azienda che regge
E' quello che succede con una storia che mescola le carte e che arriva dall'Emilia Romagna. Da Cesenatico, per la precisione. Qui c'è un'azienda che regge alla crisi, che la affronta, che tiene botta, come dicono proprio da queste parti. E' la Siropak, produce macchine per imballaggi, destinate soprattutto all'industria farmaceutica e alimentare. L'ha fondata Rocco De Lucia, un pugliese arrivato al nord per sposare la donna (romagnola) di cui era innamorato. La fabbrica funziona: trenta dipendenti, un buon fatturato e, soprattutto, un buon clima aziendale.
Un modello familiare
“Si lavora assieme – dice il titolare a Repubblica – e il successo è di tutti. Ma tutti devono sentirsi pronti. Se io spazzo a terra, nessuno si deve sentire esente”. Un modello familiare che spesso sta sulle scatole ai sindacati più radicali, che fanno fatica a cogliere lo spirito moderno di un'alleanza tra imprenditore e lavoratori, che poi è la cifra che tiene insieme le persone, sui luoghi di lavoro come su quelli della vita.
La malattia
Ma non è questa la storia che colpisce nella vicenda Siropak. Ce n'è un'altra, che è quella che davvero merita di essere raccontata. E' la storia di Steven Babbi, 22 anni, un metro e sessanta, pochi chili di peso, una malattia scorbutica che tenta di minargli l'esistenza e lui che lotta strenuamente. Ha il sarcoma di Ewin, questo ragazzo. E' un tumore che colpisce le ossa. Di recente gli è stato asportato un polmone. Ma lui lotta. Non si arrende.
Il lavoro che cura
Steven fa il terminalista proprio alla Siropak. “E' un lavoratore instancabile – dice il titolare a Repubblica -, una vera macchina da guerra. L'ho conosciuto nell'officina del padre, mi colpiva perché era sempre impegnato a fare qualcosa. Lavorava di continuo. Così l'ho portato con me”. Il ragazzo viene assunto che era già malato. Il titolare ne era a conoscenza. Ma lo ha preso lo stesso. E il lavoro ha aiutato Steven a combattere la sua malattia.
Il dramma
Solo che il destino è perfido. Lo stato di salute del ragazzo si è aggravato. Ha dovuto subito un intervento al polmone, con la successiva asportazione. Per mesi non è sceso dal letto. Nessun problema, gli hanno detto in azienda. Il posto è tuo, ti aspetta. Steven ha preso l'indennità di malattia dall'Inps. Ma dopo sei mesi, questa è stata sospesa. Sono le regole dei nuovi contratti. Per il ragazzo, così, si è aperto un dramma. Malattia, letto, niente lavoro e niente stipendio.
La mano tesa
Qui interviene la storia che cambia le cose, che mescola le carte. Prima arrivano i colleghi, che vogliono fare una colletta dai loro stipendi per continuare a sostenere economicamente il giovane. Poi il titolare dell'impresa si fa avanti e dice: “state tranquilli”. Pagherà lui, ogni mese, il sussidio che l'Inps non riconosce più a Steven. Finché il ragazzo non sarà guarito e finché non potrà tornare al lavoro, sarà tutelato. “Ci penso io”, dice De Lucia, “il posto è suo e continuerò a pagargli lo stipendio così potrà curarsi con serenità”.
Nuovo modello
Storia da libro Cuore? Lampo di buonismo occasionale? No. Quello che propone l'imprenditore pugliese-romagnolo è un altro modello possibile. “Steven è un motivatore – dice De Lucia –, è un traino per tutti, non si ferma mai. Se lui lavora così, anche gli altri lavorano così”. E' un esempio, alla fine. Se io lavoro con loro – sembra dire l'imprenditore -, e siamo una comunità anche nel bisogno, il clima sul luogo di lavoro muta. Non una elargizione, quindi, ma un investimento. Una scommessa sul capitale umano. Cresce la produttività, cresce un sentimento di comunanza, di identico destino. Siamo tutti sulla stessa barca, remiamo nella stessa direzione. Un senso nuovo anche della fabbrica, che poi così nuovo non è. Qualche intuizione di questo tipo era venuta, molti anni fa, anche al grande Olivetti. Meno padroni, più umani. Invece di combattersi, cooperare. In fondo è una ricetta che parla agli uomini, antica come il mondo, saggia come la pace. Pare che funzioni.