[Il punto] Corte Costituzionale, legittimo nominare la moglie nell’Ateneo del marito: non sono parenti
Il caso della candidata nominata professore nel dipartimento di ingegneria dell’Università in cui, però, suo marito è esponente illustre. La decisione della Consulta. Le polemiche. La differenza tra parentela, affinità e coniugio

E’ destinata a far discutere accanitamente la sentenza della nostra Corte Costituzionale che, riconoscendo come moglie e marito non sono parenti e neppure affini, ritiene legittima la partecipazione (con vittoria) del coniuge a un concorso per fare il professore dove l’altro coniuge ha già un posto di spicco.
Il caso concreto riguarda la Sicilia dove a suo tempo "una candidata fu nominata professore di prima fascia nel dipartimento di ingegneria elettrica dell’Università di Catania di cui, però, suo marito è stato fondatore ed esponente illustre. A seguito della sua vittoria nel concorso – come racconta Repubblica riprendendo la vicenda - era stato inevitabilmente presentato ricorso al Tar catanese e la nomina era stata annullata in base alla normativa (legge n. 104 del 2010, ndr) con cui l’allora ministra Maria Stella Gelmini aveva inteso porre un freno al nepotismo".

La legge Gelmini
La legge del 2010 vieta infatti la partecipazione ai concorsi a chi abbia “un grado di parentela o affinità fino al quarto grado compreso con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il Rettore, il direttore generale o un componente del Consiglio di amministrazione”.
E’ meglio tornare un attimo a questo punto al momento dell’annullamento della nomina da parte del Tar di Catania. Dopo quella decisione viene coinvolto il Consiglio di giustizia amministrativa che passa la patata bollente, com’è giusto che sia, alla Consulta.
Seguendo la precisa disposizione della Legge Gelmini chi aveva presentato ricorso al Tar di Catania sosteneva che “l’incompatibilità prevista per gli affini riguarda (anche) marito e moglie sulla base di interpretazioni consolidate della stessa magistratura amministrativa”. E allora?
L’Università di Catania faceva notare come il rapporto di “coniugio” nella normativa Gelmini non sarebbe appositamente citato “anche perché sarebbe discriminatorio e irragionevole un divieto che costringesse uno dei due coniugi a scegliere tra il rapporto coniugale, l’unità familiare e le legittime aspettative professionali”.
La decisione della Corte
Alla fine, come premesso, la Corte Costituzionale ha deciso che “il fatto che la legge Gelmini non includa il coniugio come motivo di incandidabilità …non può ritenersi irragionevole”. Questo perché occorre considerare il diverso bilanciamento richiesto dal rapporto tra marito e moglie. “Esso – stando alla Consulta – pone a fronte dell’imparzialità non soltanto il diritto a partecipare ai concorsi ma anche le molteplici ragioni della unità familiare”, anche esse tutelate costituzionalmente.
Di conseguenza la legge Gelmini non prevedendo l’incompatibilità fra moglie e marito, in occasione di concorsi, è pienamente costituzionale. Stando a questa sentenza dunque un coniuge può partecipare a un concorso e occupare una cattedra nel dipartimento dove c’è già l’altro coniuge.
Questione spinosa
A questo proposito, secondo alcuni, si elimina una preclusione che molti coniugi impegnati contestualmente nelle università, all’epoca del varo della legge Gelmini – va ricordato - avevano considerato ingiusta esponendo le loro ragioni. I paletti posti ai parenti fino al quarto grado erano infatti stati estesi puntualmente da molte università a coniugi e conviventi. Si era tuttavia verificato spesso un paradosso: tutto bene se marito e moglie lavorano fianco a fianco nello stesso dipartimento, non però se uno dei due vuole diventare ricercatore, associato o ordinario. Tanto che all’epoca alcuni Rettori parlarono di "foglia di fico che crea ingiustizie e limita la libertà di ricerca". La questione, dunque, è spinosa ed ha maggiori implicazioni di quelle che sembra presentare all’apparenza. E, se fosse possibile, andrebbe affrontata caso per caso.

Parentela, affinità e coniugio
Ad ogni modo, c’è da scommetterlo, le discussioni sull’argomento non sono certo finite, sia a livello di opinione pubblica che di giurisprudenza. Anzi, sarà utile a questo proposito chiarire alcuni punti importanti per avere più chiara la questione dal punto di vista giuridico.
Primo: il codice civile definisce la parentela come “il legame che esiste tra le persone che discendono da uno stesso capostipite, sia nel caso in cui il legame nasca all’interno del matrimonio o al di fuori di esso, sia nel caso in cui il legame derivi da una adozione, ad eccezione della sola adozione di persone maggiori di età. I parenti di conseguenza sono tali in ragione di un vincolo di consanguineità o di un rapporto di adozione”. Marito e moglie dunque per la legge effettivamente non sono parenti.
Secondo: l’affinità per il nostro ordinamento è “il vincolo che esiste tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge, nella stessa linea e con lo stesso grado della parentela a cui corrisponde l’affinità”. Quindi stando a un semplice esempio, dato che i fratelli sono parenti in linea collaterale di secondo grado (e non di primo come comunemente si crede), sarà altrettanto affine di secondo grado in linea collaterale il marito nei confronti del fratello della moglie.
Terzo: il rapporto di coniugio, quello tra marito e moglie, non viene specificamente definito nel codice ma la sua essenza ed i suoi contenuti, vengono comunemente tratti dalle disposizioni costituzionali e del c.c. che determinano complessivamente i diritti e gli obblighi che da quel rapporto scaturiscono in capo ai coniugi. In linea generale quindi il coniugio viene definito come quel rapporto che lega marito e moglie dopo il matrimonio e fondato sul principio dell’uguaglianza giuridica dei due.
Come si vede, dunque, la soluzione sul come inquadrare il rapporto di coniugio ai fini del nostro discorso non è semplice. La giurisprudenza dei più alti gradi, a consultare qualche precedente, ha emesso sentenze a volte diametralmente opposte circa la considerazione del coniugio alla stregua di parentela e affinità. Anche se il sentimento comune tenderebbe in genere – e forse a ragione – ad assimilarli, specie quando c’è di mezzo la possibilità di partecipare a concorsi pubblici.
E’ vero che se una legge non dispone testualmente qualcosa non si può farglielo dire, e se non dispone insomma esplicitamente il divieto di partecipazione a un concorso per una categoria non si può dire il contrario. Tuttavia, dal punto di vista della ragionevolezza, se viene riconosciuta l’incompatibilità per l’affinità, a maggior ragione ciò dovrebbe valere per il coniugio. Ora però la Corte Costituzionale sembra aver imboccato una strada precisa. C’è da dire, in ogni caso, che per evitare certe difficoltà di interpretazione giurisprudenziali forse basterebbe che venisse precisato meglio, anche per legge, ciò che al sentimento comune può apparire evidente.