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La kermesse di Ivrea del M5s come una convention Tecnocasa: poche idee e più passato che futuro

C'è ancora da lavorare. Ma almeno stavolta, dopo il tempo di urla e insulti, si è provato a ragionare. Magari è un passo avanti

Antonio Mennadi Antonio Menna   
La kermesse di Ivrea del M5s come una convention Tecnocasa: poche idee e più passato che futuro

Intanto c'è un palco. C'è un alto e c'è un basso. Nessuna orizzontalità, alla convention della Casaleggio chiamata Sum, in ricordo di Gianroberto ad un anno dalla morte, che si è aperta stamattina alle dieci a Ivrea, nelle vecchie officine Olivetti e ha tenuto tutto il giorno mille persone ad ascoltarne una ventina. C'è il relatore di turno in piedi sul palco e una platea tutta seduta, con il laccetto del tesserino identificativo al collo e una sedia scomoda, senza pianale. Nessuno prende appunti ma tutti maneggiano un apparecchio elettronico: un tablet, uno smartphone. Nemmeno una penna, un blocco notes, non ci sono giornali ma sul palco quelli che parlano, lo fanno dentro un microfono a mano. L'ormai vecchio gelato, che passa di bocca in bocca.

Tra gli spettatori, mescolati, con la testa rivolta all'insù, verso il palco, siedono tutti attentissimi come a una messa: compare Virginia Raggi, c'è Di Maio in blu, staziona come un sovietico al plenum Beppe Grillo in seconda fila che inforca occhiali bianchi che sembrano in 3d e non si alza praticamente mai, scompaiono in platea i parlamentari Cinquestelle (e di nessun altro partito), quelli più noti, quelli meno, qualcuno ogni tanto allunga le gambe per stirarsi, altri fuggono di lato, nei saloni laterali, mentre sul palco, lassù, si sale e si scende, ci si siede e ci si alza, si salta da un argomento all'altro. Potrebbe essere una convention Tecnocasa, questa kermesse che avrebbe dovuto costruire il programma di governo dei Cinquestelle, e che, invece, mette insieme un pugno di analisi un po' disordinate, e tenta di immaginare più che analizzare. Sognare più che prevedere.

Mentre in platea, il basso, si torce il collo verso l'alto,  sul palco c'è perfino un maxischermo su cui scorrono prima le immagini del relatore del momento, poi perfino le odiate slides. Ma è così minimal che la Leopolda di Renzi sembra una sfilata di alta moda. Ognuno veste come gli pare, qui. Nessuna fighetteria. Tutto essenziale. Magri e grassi, maglioni e sciarpette, giacche e jeans. Poltroncine nere, un cuscino rosso, l'odiata acqua minerale nelle bottiglie di plastica, e poi le parole d'ordine. Il futuro entra timido e complesso. Molta tecnologia, molto internet, si parla perfino di detriti spaziali. L'attenzione sale alta soprattutto quando l'azienda D-Orbit disegna le traiettorie celesti. I satelliti, la rete dappertutto, collegare tutto e preoccuparsi della fine dei satelliti che possono scontrarsi, cadere sulla Terra. Un brivido attraversa la schiena, il non-detto è sempre in agguato, il complotto dietro l'angolo.

Una mano la dà Gianluigi Nuzzi, che con aria misteriosa annuncia la non-presenza dell'astronauta Paolo Nespoli. "Voleva venire -dice Nuzzi - ma non c'è. Mettiamo un casco sulla sua poltrona. Non voglio pensare che qualcuno gli abbia detto che se veniva qui poi non sarebbe più andato nello spazio. Non voglio pensare male. Spero che nessuno gli abbia impedito di venire". Insomma, questo è un posto scomodo, il potere ci complotta contro, ci nega gli ospiti. Manca anche il procuratore capo di Milano, Francesco Greco mentre il vicepresidente del Csm, Legnini, manda un messaggio. Anche in questi casi, Nuzzi lo racconta con tono da Quarto grado. Cosa c'è sotto? Eh? Chissà. Magari si scocciavano. L'aria non è proprio quella di una pericolosa enclave del pensiero contro. Sembra tutto così ovvio. Già sentito. Nemmeno un brivido. Accanto a Grillo, compare Marco Travaglio: camicia bianca, abbronzatura, ride. Ma come si scocciano le file lontane dal palco, che non osano parlottare tra loro (magari ci spiano, si segnano i nomi) ma l'occhio basso li tradisce. L'attenzione spesso cala, ecco: se questo è il pensatoio c'è ancora da lavorare.

Anche Enrico Mentana, nel suo faccia a faccia con Nuzzi, non scalda i cuori. No, non è lui il giornalista più amato dalla platea. Si ride a qualche battuta (immancabile il siparietto con Nuzzi su età e capelli bianchi), si traccia qualche analisi sul futuro dell'informazione con parole d'ordine già sentite (credibilità, reputazione, dittatura del web) ma poca tensione e mamma mia, nemmeno un selfie si fanno in questa platea supercontrollata, nemmeno un hashtag, il video della diretta streaming su Facebook ha 2500 utenti in linea e pochi commenti. Manco il meeting di Rimini. Altro che futuro.

Nuzzi annuncia dal palco che è in distribuzione la raccolta delle frasi di Gianroberto Casaleggio. "Potete portarle a casa, tenerle vicine", dice, come annunciasse un libretto di orazioni. Poi si rifiuta di appoggiarle accanto al casco della mancata presenza di Nespoli. "Porta male", dice.

Poi arriva Domenico De Masi, nella controra, verso le sedici, con la sua barba bianca di profezia, parla con voce roca e infila mirabilanti battute, che svegliano la platea. Le donne che prenderanno il potere, e si vendicheranno degli uomini.

Poi mostra la foto dei potenti del mondo. Solo due donne. "Di cui una travestita da uomo". Battutona, la platea ride. Dubbio gusto, qualcuno scuote la testa. De Masi continua così per un po': simpatiche battute sulla pigrizia dei napoletani, sul teleamore, sulle badanti cecene, sulle buone idee per il tempo libero, sull'uomo analogico che odia i gay e quello digitale che si depila (?).

Ma poi torna al tema: il futuro. Come evolvono gli scenari, e in particolare il lavoro e i robot. Non ci sarà più lavoro, in sostanza. Si rispolvera Keynes: 15 ore di lavoro a settimana, 3 ore al giorno. Lavorare meno, lavorare tutti. Solo così ci salveremo. Ma poi che ce ne facciamo del tempo libero? Dobbiamo tornare a casa, stare in famiglia. Mamma mia, no. Nessuna spiega come si tenga economicamente tutto ciò. De Masi lo sa, lo accenna: bisogna redistribuire la ricchezza. Già, ma come? Nuove battute. Poche proposte. L'appuntamento col programma è rinviato.

Il momento più caldo arriva verso le 17. Sale sul palco Marco Travaglio. Si mette di fronte a Carlo Freccero, al cui fianco c'è Gianluigi Paragone. Il magico tridente. Si parla di giornali, gli amati, gli odiati. Si danno numeri sulla crisi di copie dei cartacei. Al centro della scena, un relatore affaticato, contenuto con difficoltà da Franco Bechis. Dati, numeri, tabelle, grafici a torte, elenchi. Non una lezione universitaria, un meeting aziendale. O forse un corso di formazione. Il piglio è quello, da relazione. "Se non sono chiaro fatemi un cenno e ripeto". Nessuno fiata. "Bene, continuo". Lui continua ma ognuno pensa a sé. Freccero parla col suo vicino. Travaglio si guarda le scarpe. "Alzate le mani, non fate i timidi". Nessuno si muove. Freccero sbuffa, si mette le mani nei capelli. Travaglio ride. La lezione continua. Bechis alla fine dice che non ci ha capito nulla e dà il via al dibattito. Qui corrono le parole d'ordine più amate: Bildenberg, Trilateral, potere e contropotere, le balle. Ci sono i giornali che obbediscono e ci sono i giornali liberi, dove ovviamente i secondi sono quelli amici, i presenti, quelli vicini; il contropotere della libertà vera, della verità libera, si chiama Rousseau, la piattaforma di Casaleggio; i giornalisti buoni sono quelli presenti, tutti gli altri son cattivi, che come lettura è piuttosto paradossale visto che considerare gli amici buoni e i nemici cattivi è esattamente una dinamica di potere, ma questo non conta. Si parla di futuro, anche di quello di ciascuno.

Tocca a Travaglio tentare un controcanto ostinato, addirittura una difesa dei giornali di carta. La platea è fredda. Per chiamare un applauso ci vuole un ricordo di Giulio Andreotti. Poi, della Madia, di Renzi, delle tesi copiate, di furbetti. Insomma, il menù della casa. Tutto torna quieto e tutti ridono contenti.

Si chiama futuro ma sa così tanto di passato che passa, questo meeting di Ivrea, senza lasciare nemmeno una luce. C'è ancora da scrivere, c'è ancora da lavorare. Ma almeno stavolta, dopo il tempo di urla e insulti, si è provato a ragionare. Magari è un passo avanti.

Antonio Mennadi Antonio Menna   

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