[Il commento] Il muratore, il fruttivendolo, il fornaio e il parrucchiere. L’Italia multicolore sotto casa mia e l’assurdo mito della purezza
Il tessuto sociale ed economico di una grande città è ormai come quelle maglie mille fili che sferruzzavano le nostre nonne, dove i colori erano talmente tanti che diventava impossibile distinguerli. E se le metropoli sono arcobaleno, vale ormai sempre più anche nelle realtà più piccole. Non siamo mai riusciti a fermare qualcuno sul bagnasciuga. I problemi esistono, l’accoglienza è un processo complicato, l’immigrazione va gestita. Ma la vera sfida nel rapporto tra Italia e migranti non è quella dei barconi
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L’ultimo piccolo eroe italiano si chiama Yebaneberhan, ha i capelli ossigenati e la pelle nera. Ha appena vinto la medaglia di bronzo in una gara regina come i 10 mila metri agli Europei di atletica, rinverdendo i fasti, lontani decenni, dei Cova e dei Panetta. Gli ultimi martiri che il paese subisce, invece, sono 12 braccianti ugualmente neri, morti stipati in un furgone per portarci in cucina i pomodori che ci servono per un piatto nazionale come gli spaghetti al sugo.
E allora mi chiedo: che Italia hanno in mente Salvini e sovranisti assortiti? Non “quale” Italia, come se si trattasse dii scegliere fra diverse opzioni, ma “che” Italia, come differenza fra quella reale e le altre possibili, del tutto immaginarie. Perché l’idea di una fortezza Italia, impervia alle ondate migratorie, da conservare nella sua purezza originaria è una immagine da cartolina postale, di quelle che non esistono più, sepolte dalle foto con didascalia dei messaggini whatsapp. E l’idea gemella di restituirla agli italiani comporta l’inevitabile passaggio di stabilire chi sono, oggi, questi italiani: quelli che l’Italia reale la vivono, la abitano, la fanno camminare nella storia di ogni giorno.
Io vivo a Roma, in un quartiere di piccola e media borghesia, con radici che più romane non si può, addossato alle case popolari dove Pasolini ambientò “Ragazzi di vita”. A casa mia viene a fare “i mestieri” - come si diceva ai tempi che Salvini immagina, ma non ha fatto in tempo a conoscere - cioè a pulire e stirare, la signora Maria, romena. E’ romeno anche Fiorello, il muratore che chiamo quando ho bisogno di qualche lavoretto. Se l’impresa è un po’ più complicata, mi rivolgo a Faker, siriano di Damasco.
Il bar più vicino è di Marina, ucraina del Donetsk. I cornetti migliori per il mattino, però, li ha il bar tabacchi un po’ più in giù, gestito da Maria, romena. Di fronte, sull’altro lato della strada, c’è un pane-pizza a taglio, che manda avanti una coppia di serbi di Novi Sad. Subito dopo, il fruttivendolo. E’ albanese, di Scutari. Ma se voglio più scelta ci sono due grandi negozi di frutta nella piazzetta più avanti, uno di fronte all’altro. Egiziani tutti e due.
Per detersivi, batterie, lampadine, eventualmente calzini, vasi per le piante e fiori finti, c’è l’emporio del signor Wang e dei suoi due figli. Cinesi. Anche il parrucchiere per signora che va per la maggiore in zona è cinese. Il mio barbiere, Rashid, invece, è marocchino di Rabat. Per lavare un piumone o stirare una giacca, posso scegliere fra una lavanderia pakistana e una bengalese. Orli e piccoli lavori di sartoria li fa un giovanotto di Sri Lanka. Chi sta al forno, nella pizzeria ristorante a metà della via, è un egiziano.
E nella cucina della romanissima osteria all’angolo, a mettere sui fornelli rigatoni alla pajata e coda alla vaccinara sono due nigeriani. Viene dal Senegal, invece, il cuoco del ristorante di cucina mediterranea, in questo momento di gran moda nel quartiere. Il benzinaio più vicino è somalo. E, da qualche mese, ha aperto un lavaggio auto un padre tunisino, assistito dai due figli.Davanti alla chiesa, il fioraio è tunisino anche lui.
E gli italiani? Sono scappati? Neanche per idea. Altri due bar, la gelateria, il surgelati, il tappezziere, il negozio di cibo per cani, l’elettrauto, il meccanico, il macellaio, gli hamburger di Ciccio’sFood, l’aggiusta-computer, l’aggiusta-serrande, il fisioterapista, il corniciaio batterebbero bandiera italiana, se si ponessero il problema. Ma non se lo pongono. Le anziane signore e i tanti pensionati del quartiere portano la giacca dal bengalese, comprano le pesche dall’albanese, lavano la macchina dal tunisino, si portano a casa la pizza del serbo senza farci più caso.
Il tessuto sociale ed economico di una grande città è ormai come quelle maglie mille fili che sferruzzavano le nostre nonne, dove i colori erano talmente tanti che diventava impossibile distinguerli. E se le metropoli sono arcobaleno, vale ormai sempre più anche nelle realtà più piccole. La badante che, nelle Marche, ha dolcemente accompagnato gli ultimi anni di mia madre è bulgara. La ragazza che tiene a posto casa è moldava, il giardino lo cura un senegalese, il tuttofare è macedone, come anche il muratore che ha sistemato l’intonaco dopo il terremoto.
Nessuno di quelli che ho nominato e che incrocio ogni giorno, a Roma o nelle Marche, ha rubato il lavoro a qualcuno. Nessuno, del resto, vive di stipendio. Ognuno è venuto qui, si è rimboccato le maniche e, con le sue forze e il suo lavoro, si è trovato una strada, ha rischiato aprendo una attività o inventandosela e, come tutti, contribuisce così a mandare avanti il paese. Come li vogliamo chiamare, migranti? Non ha senso. Chiamiamoli migrati.
Salvini non è il primo ad illudersi di fermare i prossimi sul bagnasciuga. Non lo abbiamo mai fatto. Da tremila anni, da Enea e i suoi troiani in poi, non siamo mai riusciti a fermare qualcuno sul bagnasciuga. I problemi esistono, l’accoglienza è un processo complicato, l’immigrazione va gestita. Ma la vera sfida nel rapporto tra Italia e migranti non è quella dei barconi.
La scommessa che definirà l’Italia futura è un’altra e non ci pensano neanche gli oppositori di Salvini. Fra dieci-quindici anni, i figli di quelli che oggi scendono dai barconi saranno in grado di masticare un “fatti non foste a viver come bruti” o qualche altro verso di padre Dante? E, magari, di emozionarsi per l’epopea di Italia-Germania 4-3? L’Italia – l’idea d’Italia – sta molto più li dentro che in una carta di identità.