Il mio viaggio in barca verso l’isola di plastica. L’inquinamento ci sta uccidendo
A parlare è Alex Bellini, l’esploratore che dalla baia di San Francisco sta per salpare con una piccola barca alla volta della grande isola di plastica al centro dell’Oceano. Lo scopo è quello di mostrare i danni provocati dall’inquinamento

Otto milioni di tonnellate: è la quantità di plastica che ogni anno si riversa negli oceani trasportata dai grandi fiumi in tutti i continenti. Da soli, i corsi d’acqua più inquinati sono responsabili del 90% dei materiali inorganici presenti in enormi masse nei punti di convergenza delle correnti marine. Il più grande di questi accumuli si estende per un milione e seicentomila chilometri quadrati nell’Oceano Pacifico. E’ la grande isola di plastica, il Great Pacific Garbage Patch, il simbolo di un’emergenza globale di cui è urgente prendere atto per invertire la rotta, prima che sia troppo tardi. “Quello che occorre è aprire gli occhi e creare una presa di coscienza globale, un’assunzione di responsabilità dal livello individuale a quello collettivo: siamo tutti sulla stessa barca, non esiste un pianeta B”. A parlare è Alex Bellini, l’esploratore che dalla baia di San Francisco, in California, sta per salpare con una piccola barca a remi proprio alla volta della grande isola di plastica al centro dell’Oceano Pacifico.
Lo scopo è quello di mostrare in maniera tangibile i danni provocati dall’inquinamento, rendendo evidente quanto il problema e le sue cause siano legate alle abitudini inconsapevoli dell’uomo. Nasce così il progetto 10 Rivers 1 Ocean, un lungo viaggio attraverso i 10 fiumi più inquinati al mondo fino al centro dell’oceano. “Con questo progetto voglio intraprendere lo stesso viaggio che ogni anno compiono milioni di pezzi di plastica e come loro mi unirò al Great Pacific Garbage Patch”, spiega l’esploratore, che di recente ha concluso la navigazione del Gange su una zattera costruita con materiale di recupero, documentandone lo stato avanzato di degrado.
“In natura tutto è interconnesso, tutto interagisce col resto. Non c’è modo di limitare le conseguenze del disequilibrio al luogo in cui questo viene creato. Per questo ognuno deve fare la propria parte”. Bellini ha scelto di agire reinterpretando la funzione dell’esplorazione e mettendola al servizio dell’ecologia. Perché “Solo conoscendo ciò che abbiamo attorno possiamo prendercene cura”. E’ un aggiornamento del paradigma che assegna tradizionalmente all’esplorazione il compito di scoprire l’ignoto: oggi la nuova frontiera da esplorare è proprio la relazione causa-effetto fra i comportamenti dell’uomo ed il pianeta che soffre.
Abbiamo deciso di accompagnare Alex Bellini in questa nuova tappa del suo viaggio, raggiungendolo a S. Francisco dove fervono i preparativi per la sua partenza, in attesa delle condizioni meteo ideali per intraprendere la navigazione a remi. Non sarà semplice infatti superare la barriera delle correnti, prima di raggiungere il mare aperto. Per questo Bellini sta vagliando diverse offerte volontarie da parte di skipper locali nell’ipotesi di avvalersi di un’imbarcazione di supporto per la fase iniziale del viaggio.

Vi proponiamo qui la prima parte di un’intervista in due puntate, alla vigilia della nuova avventura, l’ultima in oltre vent’anni di esperienza sul campo.
Alex, partiamo dall’inizio. Chi è Alex Bellini nella vita e nella professione? Quale molla scatta nel decidere di misurarsi ogni volta con sé stessi e con le sfide più estreme?
“Intorno ai 20 anni studiavo Scienze Bancarie a Milano e per quanto apparentemente avessi tutto ciò che mi serviva per essere appagato, c’era qualcosa dentro di me che la pensava diversamente Non potevo rassegnarmi all’idea che la mia vita fosse tutta lì”.
“In quel momento ho avuto 2 fortune: quella di essere nato in un piccolo paese di montagna, a contatto con la natura per cui provavo un interesse ed una curiosità innati. La seconda fortuna è aver avuto una famiglia che ha sempre viaggiato molto, in particolare mio padre, appassionato di rally africani: lui mi ha trasmesso la passione per la dimensione dell’avventura. Così, nel dubbio su quale percorso imprimere alla mia vita ho deciso di provare la strada del viaggio. Il mio proposito era quello di prendermi del tempo per capire chi volevo essere da grande. E credevo che l’idea del movimento potesse essere complice di questa ricerca interiore. Ed è stato così: perché ho scoperto proprio camminando che quello che volevo fare nella vita era fare l’esploratore. Da allora non ho più smesso”.
“Sono un viaggiatore professionale, che è cosa diversa dal viaggiare per passatempo. Riesco a rendere profittevole il mio lavoro in vari modi, ad esempio con la pubblicazione dei miei libri. Sono anche un life coach. Ma quello che mi ha spinto sin dall’inizio, ed ancora oggi mi spinge ad andare avanti è l’idea di rendere la vita degna di essere vissuta. L’esplorazione per me è innanzitutto un viaggio dentro se stessi”.
Come nasce il progetto 10 Rivers 1 Ocean, qual è il suo significato?
“Il progetto nasce alla fine del 2017 , ispirato in seguito ad alcune conversazioni avute con amici giornalisti che mi incitavano a trasformare la mia attività in una sorta di servizio sociale. Loro mi sfidavano a raccontare il mondo che cambia. E non c’è persona migliore che può fare questo se non un esploratore. Perché l’esploratore fa questo da sempre: documenta il mondo così com’è”.
“Ciò che intendo fare con questo progetto in effetti è contribuire ad accrescere la consapevolezza delle persone su un argomento che ci riguarda tutti da vicino e di cui siamo testimoni ogni giorno: l’inquinamento della plastica. Nel mio mestiere vivo intimamente la relazione con la natura nella sua potenza da un lato e nella sua estrema vulnerabilità dall’altro. Per questo non potevo rimanere insensibile di fronte alle difficoltà che l’ambiente incontra in questo momento anche per colpa dell’uomo che diventa una grande leva di cambiamento strutturale, geologico, climatico del nostro pianeta .
L’idea dunque è quella di guardare al grande problema della plastica negli oceani andando a vedere da dove ha origine e quali sono le sue cause. Può sorprendere sapere che l’80% della plastica che oggi inquina gli oceani non ha origine nel mare ma è stata generata sui corsi d’acqua, in particolare nei 10 i fiumi inclusi all’interno del progetto: fiume Hai (Cina) , fiume Azzurro e fiume Giallo (Cina) fiume delle Perle (Cina) , Indo (Pakistan), Nilo (Africa), Amur (Asia), Gange (India) , Niger (Africa) , Mekong (Indocina).
Dopo il Gange il Great pacific garbage patch è la seconda tappa del tuo viaggio. Entrarci dentro è un'impresa non semplice, mai tentata fino ad ora. Cosa ti aspetti di trovare?
"La missione di 10 Rivers 1 Ocean è documentare dove la plastica nasce, però vogliamo portare attenzione anche a dove si conclude questo lungo viaggio per la gran parte della plastica che viaggia lungo i nostri fiumi. Il Great Pacific Garbage Patch, è la più grande delle cinque grandi chiazze galleggianti presenti in questo momento nei nostri oceani, con oltre centomila tonnellate di materiali in sospensione, di ogni dimensione e forma, alcuni presenti da decenni. Entrarci dentro non è un’impresa così estrema come ci si potrebbe aspettare, di fatto talvolta le navi ci passano senza nemmeno rendersene conto. In realtà non si tratta di un’isola di plastica in mezzo al Pacifico, qualcosa di solido in cui andare a fare il barbecue. Il pericolo più grande potrebbe essere quello di finire contro un grande pezzo di plastica o di ferraglia semisommerso e riportare dei danni alla barca, ma con un po’ di attenzione il rischio è limitato”.
“Il problema più grave in realtà non si vede ad occhio nudo. Il 70% della massa che si trova nell’oceano infatti è composta da micro-plastica , così piccola che talvolta non si riesce a riconoscerla se non attraverso le lenti di ingrandimento. E questo è l’aspetto più grave: le microplastiche sono ormai diffuse in tutto l’ecosistema e sono entrate all’interno della catena alimentare. C’è un enorme problema di salute che viene sottovalutato, che riguarda le creature marine e l’uomo in ultima istanza. La questione è stata sottovalutata per troppo tempo, poiché si tende a pensare che tutto quello che non conosciamo non esiste. Sappiamo che non è così, e questo viaggio contribuirà a dare una nuova evidenza al problema.
Dunque l’obiettivo è dare un contributo scientifico alla causa per l’ambiente marino?
“La comunità scientifica ha già speso molto tempo e risorse per studiare questo problema ed ha sicuramente contribuito ad ampliare la consapevolezza delle persone su questo tema ma ancora oggi la gente considera il problema come molto distante da sè, lo vede come fosse il problema di qualcun altro o delega la sua risoluzione a chi potrà occuparsene in seguito. Invece siamo giunti ad un punto del nostro viaggio su questa piccola navicella spaziale chiamata Terra in cui un’assunzione di responsabilità non è più rimandabile. Quello che mi ripropongo è di creare questo senso di ownership, sia individuale che collettiva, in grado di ridurre la distanza psicologica dal problema. Intendo rivolgermi alle persone dicendo: venite con me sulla mia barca, sarò i vostri occhi, sarò i vostri 5 sensi , faremo insieme un viaggio dopo il quale sarà impossibile continuare ad ignorare quello che sta succedendo”.
In cui non si può ignorare il problema. Detto questo ci sono varie collaborazioni con Università e centri di ricerca. Perché se è vero che voglio creare un movimento è vero anche che siccome sono anche io un ricercatore mi piace mettermi al servizio di centri di ricerca o università. In particolare l’Università di Padova sul Gange. Ho raccolto dei sedimenti del fondale che hanno la memoria del fiume che saranno analizzati per avere più chiara quale sia la concentraione dei vari materiali inquinanti sul Gange".
In che modo verrà documentata la missione e quanto durerà?
“Useremo tutti gli strumenti di comunicazione, principalmente i social networks attraverso i quali contiamo di raggiungere grandi masse di persone attraverso uno strumento di uso quotidiano come il telefono. C’è anche una media partnership molto importante con Euronews, broadcast internazionale che condividerà i miei aggiornamenti in 17 lingue durante tutte le fasi della navigazione che andrà dalle 2 alle 5 settimane a seconda della velocità con cui riuscirò a raggiungere il GPGP e da lì le Hawaii che sono la destinazione finale del mio viaggio.
"Siamo tutti nella stessa barca": è il tuo appello all'azione sull'inquinamento dei mari. Ma bisogna fare i conti con abitudini consolidate e con le esigenze di crescita dei paesi in via di sviluppo,: faremo in tempo a invertire la tendenza globale prima che sia troppo tardi?
“E’ già tardi. Il punto di equilibrio è già stato superato ma questo non ci può esimere dall’agire per evitare di soccombere all’emergenza. Non so se riusciremo a salvare il pianeta. Quello che verosimilmente possiamo fare è aggiungere un secondo ad ogni giorno di vita che rimane da vivere alla nostra Terra. A partire dall’economia, la forza che guida il nostro progresso: l’economia deve tornare a parlare la stessa lingua dell’ecologia. Due parole, se ci si pensa bene, che condividono la stessa radice. Le regole che governano il nostro pianeta e quelle che regolano lo sviluppo devono tornare coincidere. Ci sono dei segnali incoraggianti ma troppo deboli ed isolati. Piccoli progetti piccole azioni di piccole aziende.
Occorre invece un vero e proprio movimento collettivo attorno al quale creare i presupposti del cambiamento. “Siamo sulla stessa barca” non è solo uno slogan, è anche un appello alla consapevolezza davanti ad un mondo che per effetto della globalizzazione è diventato piccolo. Piccolo come le vecchie barche dei pescatori genovesi dove l’unico modo per ripararsi da vento e piogge era stare uniti l’un con l’altro contro la furia degli elementi ritrovando un senso di appartenenza più profondo. Solo così anche noi riusciremo a condurre la nostra piccola barca in mari meno tempestosi e con condizioni migliori”.