Le mosse dissennate di Trump ed Erdogan: ecco perché i soldati italiani sono tornati nel mirino
Come ampiamente previsto le sconfitte territoriali del Califfato e l’uccisione di Al Baghadi non costituivano la fine dell’Isis e del terrorismo in Iraq e in Siria

Come ampiamente previsto le sconfitte territoriali del Califfato e l’uccisione di Al Baghadi non costituivano la fine dell’Isis e del terrorismo in Iraq e in Siria. Ci vogliono adesso i cinque feriti gravi delle nostre migliori forze speciali nell’attentato di Kirkuk, nel Kurdistan iracheno, perché qui in Italia venga convocato un consiglio supremo della difesa presieduto dal capo dello Stato: insomma ci vogliono delle vittime perché qui si accorgano che ci sono ancora quasi 900 militari italiani in missione di addestramento delle truppe irachene e curde e perché si conduca un’analisi di quanto è accaduto dopo la sconfitta dei curdi in Rojava.
“Siamo in mano a strateghi da strapazzo"
Non da oggi siamo in mano a strateghi da strapazzo e non è certo una novità che badino poco a quanto dicono gli esperti o i militari sul campo, basta vedere quanto accadde nel Mediterraneo e in Libia. Ed è anche abbastanza sconcertante stamane non vedere nulla di quanto accaduto in Iraq sul sito ufficiale del ministero della Difesa. Il sindacato dei militari si è espresso fermamente contro l’impegno delle forze armate italiane in Iraq: “È ora di ritirare tutti i contingenti militari italiani dalle missioni all'estero perché l’impegno delle forze armate, in questo modo, è chiaramente contrario all'articolo 11 della Costituzione”. Qui come in Afghanistan, dove ci sono ancora mille soldati italiani, si combatte una guerra contrabbandata come “missione di pace”. Una cosa è certa: c’è da chiedersi cosa ci facciamo ancora in Iraq o in Afghanistan con la Libia in fiamme alle porte di casa. Ma la nostra classe politica, di governo o di opposizione, che ne sa di politica internazionale? Se ne occupa a tempo perso.
La presenza italiana in Iraq
L’unica giustificazione per restare in Iraq sarebbe che una nostra presenza militare possa avere un ruolo di intelligence di quanto accade sul terreno e di monitoraggio dei jihadisti italiani che avevano aderito all’Isis per evitare che ce li rispediscano a casa senza preavviso, come vorrebbe fare Erdogan con i militanti europei del Califfato. I francesi, per esempio, hanno un accordo ufficiale con il governo di Baghdad per fare processare i loro in Iraq e condannarli a morte: ma da noi di queste cose non si parla semplicemente perché non abbiamo mai niente da dire di concreto su quasi nulla che riguardi la politica estera e di difesa.
Le mosse dissennate di Trump
Possiamo comunque ringraziare anche le mosse dissennate di Trump per questo attentato, simile a molti altri dell’Isis o di Al Qaida in questi anni, per verificare quanto potrebbe costare nei prossime mesi e anni la decisione americana che ha lasciato un pezzo della Siria del Nord in mano alla Turchia e ai gruppi jihadisti dove per sapere cosa succede realmente dobbiamo rivolgerci non alla Nato, ormai un ectoplasma, ma alla Russia di Putin che tiene a bada la Turchia nella “fascia di sicurezza” rubata ai curdi del Rojava.
La mossa criminale di Erdogan
Ci voleva questo attentato, di cui attendiamo di conoscere i contorni con precisione, per comprendere la mossa criminale di Erdogan che, massacrando i curdi, ha lasciato incustodite le carceri da dove sono giù scappati centinaia di jihadisti presi prigionieri dai curdi e alle forze della coalizione internazionale impegnata contro il Califfato di Al Baghdadi. Ma come dice il presidente francese Macron, che definisce la Nato in stato di “coma cerebrale”, gli europei e l’Occidente lasciando mano libera ad Ankara ormai si sono bevuti il cervello.
Le proteste interne contro il governo iracheno
Tra l’altro le forze di sicurezza irachene in queste settimane sono sempre più impegnate a contenere, con centinaia di morti, le proteste interne contro il governo a maggioranza sciita e hanno allentato in parte i controlli nei confronti dell’Isis e dei gruppi jihadisti che, nonostante l’uccisione del loro capo, probabilmente possono recuperare margini di manovra e pericolosità partendo dai villaggi fuori dai centri urbani. Se la destabilizzazione in Iraq continua non è detto che riescano anche a ridare fiato alla loro propaganda orientata contro gli occidentali, gli sciiti e soprattutto contro l’influenza dell’Iran. Gli attentati come quello di Kirkuk servono anche a questo.
Il 16° anniversario della strage di Nassiriya
Il tutto avviene in coincidenza con il 16° anniversario della strage di Nassiriya, quando il 12 novembre del 2003 morirono 19 italiani in un attentato alla base militare di White Horse furono uccisi 12 carabinieri, 5 militari, un cooperante internazionale e un regista. Nello stesso episodio persero la vita 9 cittadini iracheni e altri 58 rimasero feriti. L’Italia stava partecipando alla missione internazionale ”Antica Babilonia”, che aveva molteplici obiettivi: il mantenimento dell’ordine pubblico, l’addestramento delle forze di polizia del posto, la gestione dell’aeroporto e gli aiuti da portare alla popolazione. In realtà il governo Berlusconi aveva deciso di aderire a questa missione su richiesta degli americani, la famosa “coalizione dei volonterosi”, con l’obiettivo di prendersi dei meriti dopo la caduta di Saddam Hussein e di partecipare in prima fila alla ricostruzione dell’Iraq e allo sfruttamento delle risorse petrolifere del Paese.
La zona dell'attentato
E per una coincidenza degli eventi e della storia l’attentato è avvenuto nella zona petrolifera di Kirkuk, città da sempre contesa tra arabi, curdi e turcomanni, bersaglio anche del Califfato che sui pozzi di petrolio contava per aumentare le sue entrate e la sua potenza di fuoco. Non è un caso che gli americani, traditi i curdi, in Siria abbiamo occupato i giacimenti di oro nero.