Gli indigeni nigeriani trascinano l'Eni in tribunale: "Ha inquinato le nostre terre, ci dia 2 milioni di euro"

Uno sversamento di greggio devasta una porzione di territorio nel Delta del Niger, chiesto risarcimento davanti al giudice italiano: è la prima volta che accade. Parla l'avvocato: "Le compagnie inquinano e non bonificano, ora basta"

Un uomo nigeriano sopra i fusti di petrolio dell'Agip

Non c'è pace per l'Eni in Nigeria. Dopo le presunte mazzette pagate a un ministro per i diritti di estrazione nel Paese africano, la compagnia petrolifera italiana dovrà vedersela con gli abitanti indigeni di un villaggio del Delta del Niger chiamato Ikebiri. Guidati da un consiglio degli anziani e da un re, gli indigeni hanno fatto causa al colosso petrolifero per aver inquinato le loro terre e contaminato i loro corsi d'acqua, danneggiando sia la fauna ittica che la vegetazione. Ma, soprattutto, rendendo inutilizzabili le terre collettive che da secoli sfamano la comunità. Un'area molto vasta, ben più ampia di quei 9 ettari contaminati dichiarati dall'Eni. E, sostengono gli indigeni, mai bonificata.

La causa è stata intentata presso il tribunale di Milano, dove ha sede la società petrolifera, attraverso l'avvocato Luca Saltalamacchia e supportata fin dall'inizio dall'associazione "Friends of the Earth Nigeria". Una causa che rappresenta un caso senza precedenti: mai prima una comunità aveva intentato un'azione contro un colosso petrolifero italiano. Ed è tanto più importante perché la comunità in questione vive in una delle zone più inquinate del pianeta grazie alla irresponsabile attività estrattiva delle compagnie petrolifere di mezzo mondo, certifica l'Onu. Tra queste c'è appunto l'Eni.

Cosa è successo nel 2010

I fatti su cui si basa il procedimento risalgono al 5 aprile 2010 quando una delle otto condutture petrolifere del Nigerian Agip Oil Company (nell'area la compagnia possiede anche 7 pozzi), per un guasto meccanico, sversò nel terreno circostante barili e barili di greggio. La compagnia, allertata dagli abitanti dell'area, "intervenne in maniera tutto sommato tempestiva - conferma Saltalamacchia a tiscali.it - con la chiusura della falla e la 'bonifica in un'area di nove ettari". Tutto a posto dunque? Non proprio, visto che della presunta bonifica l'Eni ha sempre rifiutato di far vedere le certificazioni e, fatto non secondario, il petrolio continua a persistere nel sottosuolo e ad allargarsi, "anche a due chilometri di distanza dal sito". 

La prova arriva da alcune analisi di laboratorio, commissionate dal villaggio, "che dimostrano inequivocabilmente che tutti i valori sono superiori a quanto consentito dalla legge, cosa che non dovrebbe essere se la bonifica fosse stata fatta in maniera regolare - sostiene Saltalamacchia -. Eni si è sempre rifiutata di condividere con noi i documenti e quindi non sappiamo che cosa questa certificazione abbia accertato". La sensazione è che il colosso petrolifero italiano "abbia fatto qualche intervento molto superficiale e che le agenzie certificatrici abbiano rilasciato la documentazione nonostante il sito sia inquinato".

In ogni caso, precisa il legale napoletano, "noi riteniamo che se un sito sia inquinato o meno dipenda dalla quantità di petrolio nel terreno e non dal possesso di una certificazione in tal senso". Materia per il giudice milanese. Anche le dichiarazioni di Eni, che parla di soli 9 ettari contaminati, non convincono. "Sappiamo con certezza che l'originaria area era di circa 18 ettari: è evidente che la macchia di greggio sotterranea, se non è stata asportata, si è estesa". 

Danni economici e sociali pesantissimi

Ma il danno non è solo economico. A ben vedere, la mancata bonifica di un territorio così vasto di terre collettive rappresenta un danno sociale pesantissimo. "Molta parte della popolazione vive di agricoltura nei terreni comunitari: raccolta di frutta e semi, coltivazioni di verdura, frutta e ortaggi, allevamento ittico negli stagni; ancora, si utilizza il legname per costruire canoe o abitazioni: se vivono dei terreni e questi sono superinquinati si capisce l'entità del danno". E poi, aggiunge l'avvocato, "questa è una comunità indigena che con il territorio ha un rapporto molto stretto, vitale". 

"L'Eni paghi due milioni di euro"

Il risarcimento offerto da Eni iniziamente ammontava a "due milioni di naira, circa 6.000 euro di oggi e 10 mila del 2010", dice Saltalamacchia. Assolutamente insufficienti per realizzare una bonifica di quella complessità. La seconda offerta della compagnia fu di 4,5 milioni di naira (pari a 13 mila euro attuali e 22 mila nel 2010) ma venne ugualmente rifiutata dal re perché insufficiente. "Oggi la richiesta portata davanti al giudice italiano è di due milioni di euro, tenendo conto del tempo trascorso senza bonifiche e degli standard dei risarcimenti riconosciuti dalle corti nigeriane". 

L'impressione che ci accompagna fin qui è che "le signore del petrolio" agiscano con leggerezza nei confronti delle popolazioni dei Paesi del Sud del mondo, sempre sfruttati e spremuti come limoni. "Non conosco nei dettagli la vicenda penale di Eni - dice l'avvocato -, quel che è certo è che non è facile lavorare in questi Paesi, dato il livello di corruzione dell'amministrazione pubblica. Il problema però - aggiunge - è capire se il gioco vale la candela, nel momento in cui un'azienda per poter lavorare deve commettere reati". L'unica cosa certa è che "dal punto di vista dell'impatto con il territorio la filiale nigeriana di Eni, così come le altre compagnie petrolifere (alcune sotto processo proprio per l'inquinamento ndr), sta devastando il Delta del fiume Niger", sostiene Saltalamacchia. 

C'è poi il fatto che le bonifiche non piacciono perché impegnative e soprattutto costose. "Odiatissime, è vero. La stessa Eni era disposta a pagare un risarcimento, sufficientemente incongruo per dir la verità, piuttosto che fare la bonifica: a seconda della vastità dell'area si parla di centinaia di migliaia di euro". Vedremo come andrà a finire. Prossimo appuntamento con il tribunale civile a dicembre. "Un tempo congruo - afferma Saltalamacchia - perché la comunità si possa organizzare".

Il Delta del Niger nel golfo di Guinea