Altro che populismo: i giovani italiani scoraggiati e più poveri dei loro padri. La nuova diseguaglianza da risolvere è quella generazionale
Una ricerca dell’Università di Bologna, basata sui dati della Banca d’Italia, evidenzia come in Italia siano i sessantenni a detenere gran parte del reddito nazionale

Inutile negarlo. Dai vetri specchiati di Palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea a Bruxelles, l’Italia giallo-verde è vista come il nuovo “malato” da tenere sotto stretta osservazione a causa dell’alto debito pubblico e di un deficit corretto al ribasso appena in tempo per evitare la procedura d’infrazione europea. Una vittoria di Pirro, che non risolve il dilemma delle coperture a partire dai dodici e passa miliardi di euro da trovare subito per scongiurare l’aumento dell’iva nel 2019, né chiarisce come, in prospettiva futura, potrebbero trovare piena applicazione misure come la flat tax e il reddito di cittadinanza, che a regime sfiorerebbero un costo di 70 miliardi di euro. Tutto ciò premesso, l’analisi della situazione italiana non può tuttavia ridursi alla bocciatura delle mediocri performance dell’ultima finanziaria. Perché se è vero che governo giallo-verde ha peccato di velleitarismo e di miopia strategica con l’Europa negli ultimi mesi, è altrettanto vero che la stagnazione italiana non nasce ieri, ma affonda le sue radici ben prima della grande crisi del 2008.
E’ dal 2000 infatti, che il Pil e la produttività italiana sono praticamente congelati. Ed in questa situazione perdurante, ciò che preoccupa di più non sono nemmeno gli indicatori economici, ma quelli sociali. Perché il singolare coacervo di insipienza prodotto dal frettoloso ingresso nell’euro unito alle caratteristiche dell’infrastruttura produttiva italiana- piccolo è bello, finché puoi svalutare e non incontri uno più grosso di te- hanno innescato dinamiche imprenditoriali conservative che via via hanno bloccato anche l’ingresso nel mercato del lavoro, i meccanismi di redistribuzione del reddito ed in definitiva l’ascensore sociale del paese. A farne le spese sono stati e sono i più giovani, schiacciati alla base della piramide sociale, deprivati dei diritti che un tempo furono dei loro padri ed impoveriti da una precarizzazione dilagante in un sistema che non cede i privilegi acquisiti dalle precedenti generazioni verso le nuove.
Una recentissima ricerca dell’Università di Bologna, non sufficientemente commentata per la portata dirompente dei suoi risultati, mette in evidenza come oggi la nuova diseguaglianza emergente nel nostro paese sia proprio quella generazionale. Un divario cronico, sempre più incolmabile che non agisce più per appartenenza di classe o per diritto di nascita, ma che si basa essenzialmente sul dato anagrafico. La ricerca, basata sui dati della Banca d’Italia, evidenzia come in Italia siano i sessantenni a detenere gran parte del reddito nazionale. I nati dopo il 1986 fanno parte della generazione che ha il reddito pro capite più basso, meno di 30mila euro annui. Segue la generazione nata fra 1966 e 1985, con circa 40mila euro l’anno di media.
Le fasce di reddito più alto sono anche le più vecchie, i nati prima del 1945 e soprattutto i nati fra il 1946 e il 1965, compresi i baby boomers, che sono la fascia anagrafica più ricca della popolazione. Il dato sulla ricchezza giovanile è preoccupante, ma a essere allarmante è anche la media del reddito pro capite della fascia dei quarantenni: diecimila euro in meno di quanto disponessero i baby boomers alla loro età. ventenni di oggi sono la generazione più povera della storia italiana. La questione non è di poco conto, e rappresenta una delle chiavi di lettura più illuminanti sul successo del fenomeno populista italiano. Se ne dibatte poco da noi, all’interno dei partiti d’opposizione forse troppo presi a guardarsi l’ombelico e cercare una via di sopravvivenza contro l’onda di malcontento che li ha travolti.
Eppure la soluzione è lì, a portata di mano. A dare un meritorio contributo all’analisi che latita dalle nostre parti è stato, qualche giorno fa, il quotidiano francese Les Ecos, individuando l’origine della crisi italiana proprio nel solco tra quelli che hanno beneficiato del cosiddetto “miracolo italiano” del secondo dopoguerra e i nati dopo il 1980: giovani che non hanno conosciuto il boom economico, i vantaggi sociali, il miglioramento del benessere individuale. Sulle loro spalle si sono riversati il costo della perdita di competitività del “sistema Italia”, con la compressione graduale dei diritti e dei salari, in modo indiscriminato da Nord a Sud e senza sostanziali differenze fra i più formati e i meno formati.
La differenza in busta paga si sente soprattutto se paragonata alle medie degli altri paesi europei. “I più fortunati non guadagnano più di 1500 euro al mese, mentre in Francia, a parità di formazione, guadagnerebbero il doppio”, sottolinea Les Ecos. A questo si aggiunge una fiscalità del lavoro penalizzante, che accentua le ineguaglianze: la tassazione per il primo scaglione d’imposta fino a 15 mila euro è pari al 23%, mentre in Francia non si versa nulla fino ai 9800 euro annui di reddito. Per contro, l’imposizione fiscale sul capitale è debole, ed anche la tassazione sulle successioni è fra le più basse dell’Ocse: zero fino a un milione di euro, 4% oltre quella soglia, con la conseguenza che le grandi fortune vengono ereditate di padre in figlio e non intaccano le sacche di privilegio del gotha delle élites italiane. Le conseguenze di una tale sperequazione ci sono, e sono pesanti: nel 2016, 115 mila giovani italiani, spesso altamente qualificati, hanno lasciato il paese in cerca di fortuna. Quelli che rimangono, alla perenne ricerca di un impiego correttamente retribuito, tendono a ritardare l’uscita dalla famiglia d’origine e a procreare sempre più tardi (mediamente, il primo figlio arriva intorno ai 31 anni) con conseguenze sull’indice di fecondità, tra i più bassi d’Europa.
Come stupirsi allora che gli elettori al di sotto della soglia dei 40 anni abbiano deciso di votare massicciamente per la Lega e per il M5S alle ultime politiche? Queste cifre traducono il divorzio tra due Italie che viaggiano su binari differenti e che non si comprendono più. I giovani italiani contestano le “riforme” liberali portate avanti dagli ultimi governi- una su tutte il Jobs Act- e mal sopportano l’idea di doversi far carico, attraverso un livello di tassazione che supera il 50% del reddito, degli interessi del debito pubblico contratti dalle generazioni precedenti. Non avendo conosciuto la guerra, non percepiscono i vantaggi concreti dell’appartenenza all’UE, di cui non conoscono altro che i vincoli e le contraddizioni (l’euro, l’apertura ad una concorrenza selvaggia che si traduce in frequenti delocalizzazioni, la mancanza di solidarietà europea rispetto alla gestione dei migranti).
Da tutto questo, emerge una conclusione, che Les Ecos sintetizza con una frase: i giovani italiani non hanno più intenzione di essere dei capri espiatori. Sarà bene che questa consapevolezza venga acquisita al più presto anche dalle élites intellettuali italiane e dai partiti che intendono proporre un’alternativa all’attuale governo giallo-verde. Così come è bene che questa criticità tutta italiana venga presa adeguatamente in considerazione dagli eurofili dentro e fuori i confini nazionali, come un nodo da sciogliere prima che anche i venti-trentenni italiani inizino a indossare, in massa, i loro “Gilet gialli”.