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Fermare l’effetto serra costa, ma è anche un buon affare. Ecco perché l'economia può trascinare la politica

Un rapporto americano calcola che, nei prossimi cinque anni, si spenderanno oltre 2 mila miliardi di dollari per finanziare, costruire, mettere in opera infrastrutture, impianti, edifici, in grado di resistere al cambiamento del clima

Maurizio Riccidi - Maurizio Ricci   
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Sono due, ed è meglio farci l’abitudine. Dopo quella, del tutto inaspettata, di giugno, è arrivata, infatti, una seconda ondata di calore a luglio, di qua e di là dell’Atlantico: temperature oltre i 40 gradi sulla costa Est degli Stati Uniti, record di 46 gradi in un paesino della Francia. E non è detto che questa estate non ci riservi una terza ondata. Si chiamano così, perché non fa semplicemente caldo: si tratta di temperature significativamente superiori alle medie storicamente registrate in quel periodo dell’estate e che si prolungano per più giorni.

Più lunga l’ondata, più afa e calore si accumulano, rendendo il caldo insostenibile. Quest’anno, è stato un record dietro l’altro. Mai un giugno così caldo e, a luglio, il termometro, fra Belgio e Germania è salito fino a 3 gradi sopra il massimo precedente.

Non è solo una curiosità statistica: il massimo precedente è dell’estate 2003, quando l’ondata di calore fece – a seconda delle stime – fra 20 e 70 mila morti. Se quest’anno ha fatto più caldo, ma ci sono state meno vittime, è perché siamo un po’ più preparati. Lo siamo, però, perché l’eccezione sta diventando routine. L’ondata di calore del 2003 fu un evento, dissero i meteorologi, di quelli che capitano ogni mille anni. Da allora, ondate di calore di quella portata sono state derubricate a “eventi che capitano ogni 100 anni”. Ora non più: l’ultimo rapporto del Met Office (l’autorevole servizio meteorologico britannico) fa sapere che, fra vent’anni, estati come questa del 2019 saranno assolutamente ordinarie.

L’inganno delle medie

Sembrano sconquassi fuori misura per un riscaldamento globale che, dicono i rapporti ufficiali, ha fatto salire le temperature di un grado negli ultimi decenni e ne aggiungerà due o tre nei prossimi. Ma quelle sono medie mondiali e le statistiche ingannano. Un aumento mondiale medio (nell’anno e in tutto il globo) di un grado è perfettamente compatibile con il fatto, che, nei giorni scorsi, in cima al Monte Bianco, ci fossero 7 gradi più del solito e che, nei prossimi anni, l’estate possa far salire il termometro di 6 gradi, al di sopra delle medie storiche, nel cuore del Mediterraneo. Il cambiamento climatico non è uguale per tutti, anche se tutti, prima o poi, ne pagheranno le conseguenze. Il riscaldamento globale, infatti, è una catastrofe annunciata.

Però, non è una catastrofe inevitabile. Dieci anni fa, a Copenhagen, i governi mondiali, riuniti dall’Onu, fallirono nel tentativo di stilare un accordo mondiale per fermare le emissioni dell’effetto serra. Ma, negli anni successivi, man mano che, fra uragani, siccità e ondate di calore, l’impatto del riscaldamento globale si faceva più vistoso, la percezione del problema e la coscienza di una responsabilità collettiva si sono diffuse e radicate in un ambito sempre più vasto. Più nei protagonisti dell’economia che della politica. Ma, quando la società svolta in una direzione, la politica, di solito, si accoda.

Politici e industriali 

E’ un processo tortuoso, irregolare, altalenante. Il nostro è ancora il mondo di Donald Trump che irride al controllo delle emissioni di anidride carbonica e si preoccupa di sostenere l’uso del carbone, il più inquinante dei combustibili fossili. O del governo australiano, confermato  in carica, con il suo rifiuto di opporsi attivamente all’effetto serra, nonostante il continente australiano sia stato, in questi anni, fra alluvioni e siccità, il più colpito dal cambiamento climatico. O dell’industria petrolifera che, allo sviluppo delle rinnovabili, non dedica più del 10 per cento dei propri investimenti.

Un attimo, però. Big Oil, quando si muove, lo fa in grande stile. Gli investimenti dei giganti del petrolio sono una roba da 30 miliardi di dollari l’anno. Il 10 per cento vuol dire 2-3 miliardi di dollari per le rinnovabili, un sacco di soldi per un settore che, ancora qualche anno fa, sembrava riservato ai visionari buonisti. E, infatti, la novità è che, al di là di Big Oil, sui temi ambientali si sta facendo largo la logica – cruda, ottusa, ma implacabile – dei soldi. Fermare l’effetto serra – che, per via dello schermo di emissioni di anidride carbonica, impedisce al calore generato sulla Terra di disperdersi nello spazio – è costoso, ma può essere anche un buon affare. Oggi, o comunque presto, un affare più grosso del suo costo: un recente rapporto americano calcola che, solo nei prossimi cinque anni, si spenderanno oltre 2 mila miliardi di dollari per finanziare, costruire, mettere in opera infrastrutture, impianti, edifici, in grado di resistere al cambiamento del clima.

Tasse e Borse

Un segno del nuovo scenario che si va abbozzando è la decisione della Exxon, il gigante petrolifero per eccellenza, da sempre riluttante ad accettare la realtà del riscaldamento globale, di scendere in campo, a fianco dei colleghi europei, come Bp, Shell, Total per reclamare dal Congresso americano il varo di una “carbon tax”, una tassa che penalizzi la vendita di prodotti ad alto contenuto di anidride carbonica (come la benzina e la plastica). E’ uno schiaffo in faccia a Trump, il presidente che si fa sempre scrupolo di aiutare l’industria petrolifera e che, sul clima, è diventato il campione dei negazionisti. Con l’occhio al futuro, la Exxon - legata a Trump al punto che il suo penultimo presidente ne è stato ministro degli Esteri - si è scrollata di dosso questa ingombrante tutela, accettando non solo la tassa (che ha buone probabilità di essere varata, se Trump non resterà alla Casa Bianca) ma anche la logica ambientalista che la motiva.

In Europa, uno strumento pubblico di lotta alle emissioni di CO2 che, in America, per ora è solo un auspicio, è realtà da tempo, anche se in una forma diversa. Invece di una tassa sui prodotti carichi di CO2, in Europa le industrie che, nella loro attività, producono anidride carbonica (siderurgia, carta, cemento, energia) devono procurarsi dei diritti ad emettere il gas. Questi diritti si possono acquistare in una apposita Borsa. Ora, anche qui, arrivano segnali importanti. Il prezzo di quei diritti, infatti, è stato per troppo tempo troppo basso. Alle industrie conveniva emettere e poi ricoprirsi comprando i diritti. Ma la Ue ha reso più difficile procurarseli e il loro prezzo è rapidamente salito. Oggi, è vicino ai 30 euro a tonnellata, una soglia psicologicamente importante, perché, a questo costo, conviene ammodernare la propria produzione, rendendola più pulita (ad esempio sostituendo il carbone con il gas), piuttosto che acquistare diritti sul mercato.

La conferma che l’economia si sta muovendo con più realismo della politica viene anche da una notizia di pochi giorni fa. E’ un altro schiaffo al negazionista principe, Donald Trump. Per favorire l’industria dell’auto, Trump aveva pensato di allentare i vincoli alle emissioni di CO2 da parte delle macchine, messi in cantiere da Obama. Ma, come la Exxon, i giganti dell’auto gli hanno voltato le spalle: Ford, Volkswagen, Honda e Bmw sono andati dal governo californiano, concordando vincoli alle emissioni sui nuovi modelli auto che, sia pur più larghi rispetto alle direttive di Obama, sono più stringenti rispetto alle indicazioni della Casa Bianca. Di fatto, e in attesa di altre adesioni, il 30 per cento del parco automobilistico americano ha deciso di sottoporsi ai vincoli ambientali della California, piuttosto che accodarsi alle battaglie di retroguardia di Trump.

E’ un abbozzo – per ora, niente di più – di un mondo in cui il cambiamento climatico è un problema riconosciuto da tutti e in cui tutti si adoperano per risolverlo. In cui anche il responsabile delle strategie di un gigante petrolifero come Bp riconosce che non tutto il petrolio che oggi c’è nei pozzi vedrà la luce del giorno e una buona quota resterà sigillata sotto terra, per preservare la Terra che conosciamo. C’è il rischio che eventi diversi, come il ritorno di Trump alla Casa Bianca, riportino indietro le lancette dell’orologio e convincano i responsabili della Exxon come della Ford che le scelte difficili possono ancora essere rinviate? Forse. Ma il rischio più grosso è un altro: che la conversione sia arrivata troppo tardi per fermare la spirale del riscaldamento globale.

Maurizio Riccidi - Maurizio Ricci   
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