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Storie dalla pandemia: il disinfettante, lo stabilimento e il lockdown

La pandemia di Covid-19 ha fatto aumentare esponenzialmente la domanda di prodotti disinfettanti. Ecco come gli stabilimenti cinesi della multinazionale britannica Reckitt Benckiser si sono adattati

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   
Storie dalla pandemia: il disinfettante, lo stabilimento e il lockdown

Com’è facilmente immaginabile la pandemia di Covid-19 ha fatto aumentare esponenzialmente la domanda di prodotti disinfettanti. Mentre gran parte del mondo era fermo, le aziende produttrici si sono trovate a cercare il modo non solo di mandare avanti la produzione, ma addirittura di aumentarla, a volte anche enormemente. Nessuna lacrima. Anzi. A fine anno i bilanci riporteranno ricchi utili. Profitti a parte, tuttavia, le vicende che si sono trovate ad affrontare hanno il loro interesse.

È il caso ad esempio di uno degli stabilimenti cinesi della multinazionale britannica Reckitt Benckiser, un colosso nel settore dei beni di largo consumo che tra i suoi marchi annovera Gaviscon, Nurofen, Durex, Clearasil e Finish, solo per citarne alcuni. Lo stabilimento in questione si trova a Jingzhou, a 200 km da Wuhan, nel pieno della provincia dello Hubei ed è il secondo maggiore sito di produzione del disinfettante Dettol.

Come racconta un interessante articolo apparso sul Financial Times lo scorso 29 maggio, a Jingzhou non solo non si sono mai fermati durante il drastico lockdown che ha congelato tutta la provincia dello Hubei, epicentro della pandemia, ma hanno aumentato progressivamente la capacità produttiva, passando da 40 a 400 tonnellate al giorno. Per farlo, tuttavia, come molte fabbriche in Italia e nel mondo, si son trovati a dover risolvere mille problemi.

Primo: non chiudere

Il 20 gennaio, nella sua prima dichiarazione ufficiale sul virus, il presidente cinese Xi Jinping chiede uno «sforzo totale» per frenare la diffusione del virus e ordina che «la provincia dello Hubei implementi uno stretto controllo sui flussi in uscita delle persone». In pratica ordina il lockdown. Nella provincia c’è anche lo stabilimento di Jingzhou, che rischia di rimanere vuoto. Gli operai non possono muoversi, e lo stesso direttore David Gao è bloccato a Wuhan, da dove è impossibile entrare e uscire.

In realtà lavorare è consentito, ma su “base volontaria”, il che lascia uno spiraglio a Gao per mantenere lo stabilimento in attività. Lavoratori disponibili ci sono, ma il problema è come farli arrivare alla fabbrica, considerato che molti sono tornati nelle città di origine per il capodanno cinese. L’unica è andarli a prendere. Così il supervisore della produzione, Li Weimin, si mette al volante e compie un lungo giro di 300 km per andare a recuperare trenta dei suoi operai. Qualcun altro, invece, se la fa a piedi, come Chen Ying che cammina per 105 km. Alla fine nell’impianto sono una cinquantina.

Ma in cinquanta sono troppo pochi per mandare avanti l’impianto e anche con i novanta neoassunti non ce la si fa. Così da Wuhan il direttore David Gao struttura il lavoro su due turni per un totale di 22 ore al giorno. Dopotutto siamo pur sempre in Cina.

Secondo: non contagiarsi

Mantenuto lo stabilimento in attività, il secondo problema è quello di ridurre al minimo le possibilità di contagio. Le misure che vengono prese sono quelle ormai note. Con un’aggiunta locale. Molti dei lavoratori vengono da lontano e quindi alloggiano in dormitori, case affollate, luoghi dove la trasmissione del virus è facile. È inutile far indossare le mascherine, evitare contatti ravvicinati e misurare la temperatura in fabbrica se poi i dipendenti tornano in posti dove è impossibile garantire il distanziamento. Senza distanziamento il contagio diviene probabile, e con il contagio la chiusura dello stabilimento diviene certa. Alla fine la soluzione possibile è solo una: camere d’albergo affittate per tutti.

A febbraio la situazione in Cina si stabilizza e a marzo ormai tutti i dipendenti sono tornati al lavoro. Per la Reckitt Benckiser un’ottima notizia, per Gao, il direttore dello stabilimento, un nuovo mal di testa. Il problema infatti a quel punto è assicurare la fornitura di circa mille mascherine al giorno per i dipendenti, uno dei prodotti più scarsi e richiesti in circolazione. Gao ha però un’idea. Le mascherine infatti non sono il solo prodotto difficile da reperire, tra quelli introvabili c’è anche il disinfettante. È l’uovo di Colombo: il fornitore di mascherine assicura quanto serve allo stabilimento di Jingzhou e Gao gli fornisce il disinfettante. I conti li regoleranno una volta finita l’emergenza.
Alla fine di maggio nello stabilimento non era stato registrato alcun caso di Covid-19 dall’inizio dell’epidemia.

Terzo: non spezzare la catena

La terza sfida è forse quella più difficile: fare in modo che le forniture non si interrompano. Il lockdown ha tagliato i canali tradizionali, fatto chiudere le fabbriche, interrotto i trasporti. Questo mentre la domanda di Dettol continua a crescere. Come fare? La prima misura adottata è quella di concentrarsi solo su un 20% dei prodotti che normalmente escono dallo stabilimento di Jingzhou, quelli la cui richiesta continua ad aumentare. La produzione degli altri viene bloccata e la situazione diviene meno complicata, ma lungi dall’essere risolta.

«A causa del lockdown avevamo perso centinaia, se non migliaia di fornitori», ha ricordato Gao al Financial Times. Alcune materie prime come, olio di pino, caramello e gli aromi possono essere fatti arrivare dall’estero. Per altri la faccenda è più complicata. L’isopropanolo, ad esempio, un alcool assai richiesto, non può viaggiare per via aerea perché classificato come prodotto pericoloso. L’unica è farlo arrivare via terra, ma occorre trovare chi lo porti e soprattutto ottenere in fretta i permessi necessari per viaggiare nonostante il lockdown. Alla fine a Jingzhou riescono a organizzare quanto serve e il carico arriva da Guangdong dopo aver percorso 900 chilometri.

Qualche tempo dopo i camion che arrivavano allo stabilimento sono saliti a circa trenta al giorno, anche se spesso in ritardo per i controlli e gli adempimenti burocratici necessari per passere il confine tra una provincia all’altra. Bloccato a Wuhan, Gao dirige le operazioni attraverso ogni possibile canale di comunicazione, Skype, WhatsApp e la sua versione cinese, WeChat. C’è voluto tempo, inventiva e lavoro, ma alla fine la catena logistica non si è spezzata.

Ora a Jingzhou la situazione è tornata più o meno normale, ma la domanda di Dettol continua a crescere e lo stabilimento continua ad aumentare la sua capacità produttiva. «Siamo ancora sotto pressione» afferma Gao.

Un’esperienza utile

Man mano che l’epidemia di Covid-19 dilaga divenendo una pandemia, l’esperienza dello stabilimento di Jingzhou si rivela utile per affrontare problemi simili negli altri siti di produzione della Reckitt Benckiser sparsi per il mondo. Le questioni sono più o meno sempre le stesse: organizzare gli alloggi per i dipendenti che non possono tornare alle loro case, trattare con le comunità locali che a volte li vedono come un pericolo per la salute pubblica, garantire che gli stabilimenti operino in sicurezza, assicurarsi che la catena delle forniture funzioni in un modo o nell’altro, consegnare le merci nei mercati di destinazione. E il tutto in fretta, molto in fretta. E la fretta costa.

«L’agilità che siamo riusciti ad assicurare è stata sorprendente. I costi non sono mai stati un fattore…Fare tutto estremamente in fretta, tuttavia, ha comportato che essi siano stati significativi» ha dichiarato Frederick Dutrenit, vicepresidente della Reckitt Benckiser con delega alle forniture in tutto il mondo.

Il problema inatteso

Alcuni problemi erano prevedibili, altri del tutto inattesi, alcuni risolvibili, altri aggirabili. Ma ce n’è uno che sicuramente i vertici della Reckitt Benckiser non si aspettavano di dover affrontare. Il 24 aprile, forzati dagli eventi si son trovati a dover emettere un comunicato piuttosto singolare per ricordare quel che è intuibile da tutti: i disinfettanti non sono prodotti che possono essere iniettati o ingeriti, per nessun motivo, neanche per sconfiggere il virus.

E non importa se ve lo ha suggerito il presidente degli Stati Uniti.

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   

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