[Il ritratto] Il baffino di ferro e il peccato originale dell’affare autostrade. Le privatizzazioni con D’Alema al potere
Disse: “Siamo stati noi a smontare l’Iri”. E’ stato così determinante nella storia degli ultimi anni da restare persino prigioniero delle sue dichiarazioni. Il sistema e i sospetti
C’è stato un tempo in cui Massimo D’Alema si vantava addirittura delle liberalizzazioni. Seduto sulla sua comoda poltrona di Porta a Porta “il salotto di regime” come lo chiamavano i soliti contestatori, elencava ineffabile i meriti di quella scelta, arrivando persino a sostenere che il vero partito liberista era quello del centrosinistra: «Durante i nostri governi il paradosso è che è stato il centrosinistra a smontare l’Iri e a fare le privatizzazioni. Con il centrodestra la spessa pubblica è diventata di 7 punti maggiore rispetto a quando c’eravamo noi. Vi invito a riflettere su questo tema». Adesso che se ne sono visti i guasti e i favori dopo la tragedia di Genova, ci riflette anche lui in modo un po’ diverso. Le privatizzazioni? Le abbiamo fatte tutti. Che poi ad onor del vero, sono pure le tesi del ministro Cinque Stelle Danilo Toninelli, anche se ha indicato con precisone nel 1999 l’anno d’inizio di quello che ha definito il «grande banchetto» delle privatizzazioni. E nel 1999 era D’Alema il presidente del Consiglio: «Con il governo D’Alema comincia l’immenso business dell’asfalto per i privati», ha dichiarato al Parlamento il responsabile del dicastero dei Trasporti. In quella privatizzazione selvaggia c’è «il peccato originale» dell’ultimo scandalo venuto alla luce con i morti del Ponte Brooklyn. D’Alema ha ribattuto a stretto giro di posta: «E’ solo propaganda. E’ scritto nei libri di storia che questa privatizzazione prese avvio con un gara nel 1999, e il controllo di Autostrade salì al 60 per cento in seguito, con il governo Berlusconi. Poi, nel 2008 arrivò l’adeguamento delle tariffe che fu votato anche da Salvini. Ma questo Toninelli non può dirlo».
Dentro gli intrallazzi
Anche l’ex ministro Pietro Lunardi in un’intervista a Tiscali ha puntato il dito contro D’Alema. La verità è un po’ meno semplice e le responsabilità sono senza dubbio più estese. Il problema, ancora una volta, è il sistema, che nutriva intrallazzi di varia specie e elargiva favori scandalosi, in cambio molto probabilmente di altri favori. Però, subito dopo Genova, Dagospia se n’era uscita con quattro righe al veleno, che toccavano in un modo o nell’altro sempre il «figlio di partito», come chiamavano ol leader Maximo ai tempi eroici di Berlinguer, cresciuto a riunioni e barca a vela: «Nessuno ha scritto di Antonio Bargone, l’uomo forte in Puglia di Massimo D’Alema, sottosegretario per i lavori pubblici del governo Prodi e poi di Massimo D’Alema, durante la privatizzazione di Autostrade, e che diventa due anni dopo Ceo di Sat (Società Autostrada Tirrenica) dei Benetton, con megastipendio». D’altro canto, essendo stato uno degli uomini forti della Seconda repubblica, è naturale che il lider Maximo finisca per trovarsi spesso impigliato in sospetti e accuse di vario genere. E’ stato così determinante nella storia degli ultimi anni da restare persino prigioniero delle sue dichiarazioni, come quella volta che definì «capitani coraggiosi» alcuni imprenditori di nuova generazione che il giornalista economico del Corriere della Sera Marco Borsa preferiva invece descrivere come «capitani di sventura», perfetti esemplari della nostra «borghesia stracciona».
"Berlusconi non entrerà in politica"
D’Alema era pure quello che aveva sostenuto che «è impensabile che il dottor Berlusconi entri in politica. Deve occuparsi dei suoi debiti. Stia fermo, tanto prenderebbe pochi voti. Non siamo mica in Brasile». Difatti. Fassino, un altro dei suoi compagni dalle profezie facili («Che provi a candidarsi Grillo, vediamo quanti voti prende»), aveva avuto un buon maestro. Quando poi si accorse che non saremmo stati in Brasile, ma Berlusconi vinceva lo stesso, corresse il tiro: «Umanamente, mi è molto simpatico». Al punto che molte volte sembravano più alleati che avversari. Nel 2013, alla scadenza del mandato di Napolitano, il Cavaliere pensava soprattutto a lui come successore, per poi ripiegare in perfetto accordo con il lider Maximo su Giuliano Amato. Andò persino da Renzi a dirglielo: «Tu stai tranquillo. Abbiamo già deciso tutto io e D’Alema». Senza considerare che era proprio quello che faceva andar su tutte le furie il Matteo di Firenze. E pensare che in tempi passati il figlio di partito, che aveva cominciato la sua scalata nel pci già a 9 anni, scioccando persino Palmiro Togliatti («ma questo non è un bambino, è un nano»), aveva bollato Giuliano Amato come «un bugiardo e un poveraccio. Lo dico e lo ripeto. E’ uno che deve far di tutto pur di restare lì dov’è, sulla poltrona. Ma che devo fare? Devo dire vaffanculo?».
Cosa c'è oltre le frasi velenose
Diciamo che a forza di battute velenose - una sua specialità - qualche cosa è rimasta agli atti, e ci scappa pure una figura barbina. Da piccolo, invece, era uno molto attento a quello che diceva. A nove anni fece appunto il suo priomo discorso in pubblico a un congresso di partito, davanti a tutti i leader più famosi. Raccontò la mamma che volle preparselo con cura e che se lo rilesse un mucchio di volte. Togliatti ne rimase per metà colpito favorevolmente. Era un nano con un destino: «Capirai, se tanto mi dà tanto, questo farà strada». Com’è successo in effetti. Nel 1975, a 26 anni, era già segretario Fgci. Non doveva piacere a tutti, perchè fu mandato in Puglia senza un incarico, come per punizione. Niente paura. Scalò anche lì le posizioni e poco dopo prese il posto del segretario. E’ sempre stato uno destinato alla carriera. Dopo Occhetto e la fine del pci, ha fatto la sua battaglia contro Veltroni. Sempre su posizioni opposte. Ma il primo segretario è stato lui, e il primo presidente del Consiglio che veniva dal Pci pure: due mandati dal 21 ottobre 98 al 25 aprile 2000.
Decadenza di un capo di sinistra
Con l’appoggio e la grande considerazione di Francesco Cossiga, che non nascondeva la sua stima per «baffino di ferro», come l’aveva battezzato velenosamente Giampaolo Pansa: «E’ uno come me che viene dalla strada, che ha attaccato i manifesti e s’è preso qualche botta. Ha un’idea chiara e forte del partito al contrario di Veltroni. E io lo preferisco». La sua decadenza è cominciata con l’avvento di Renzi, uno che ha commesso il grave errore di cominciare da antisistema dentro a un partito immerso nel sistema, che ha finito per inghiottirlo. Almeno adesso su una cosa può dire di essere stato preveggente: «Se si va sulla strada di Renzi si va al disastro politico». Resta da capire, però, quanto lui abbia contribuito. Perché se adesso tutti puntano il dito contro di lui, è un dato di fatto che D’Alema ha finito per rappresentare a tutto tondo il potere e i suoi lati oscuri. Rimanendo invischiato in qualche indagine scabrosa e in qualche pettegolezzo velenoso. Così i magistrati si erano interessati a lui per concorso in aggiotaggio nell’ambito della scalata alla Bnl da parte dell’Unipol di Giovanni Consorte. E i giornali l’avevano messo nel mirino per Affittopoli, con Alessandro Sallusti che lo accusò pesantemente. Lui gli rispose a modo suo: «Vada a farsi fottere. Lei è un bugiardo e un mascalzone». Fino al 18 giugno 2018, poco tempo fa, quando lo fotografarono in crociera con la sua barca a vela, che batte bandiera britannica e risulta immatricolata a Londra. Che non è proprio una cosa «de sinistra», a dire il vero. Ma molto di più da casta. Perché anche quando si vantavano di essere liberisti, questi mi sa tanto che lo facevano a modo loro.