[La polemica] Caro Michele Serra, ti spiego perché so che i veri bulli non sono poveri ma frequentano le scuole dei vip
Mio padre docente nelle scuole di periferia mi ha insegnato molto di quel mondo: il livello di maleducazione non è proporzionale al ceto sociale di provenienza, e scriverlo per me, oltre che essere sbagliato è anche pericoloso
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Caro Michele Serra,
abbiamo discusso a distanza (tu su La Repubblica, io su Tiscali) sulla scuola di classe, sui bulli, sule radici della disuguaglianza e su quelle della violenza tra studenti. Tutto questo prima che il tuo articolo venisse travolto da una tempesta via social, piena di critiche più o meno giuste, ma anche di insulti e di cliché sbagliati ed evocati a sproposito. Ma questo è accaduto dopo.
Devi sapere che, prima, il motivo per cui ho voluto reagire alla tua Amaca (che tra l’altro la riproduceva quasi integralmente) con un articolo, è anche legato a una ragione personale: mio padre, orgoglioso professore della scuola pubblica italiana, ha insegnato per tutta la sua vita negli istituti tecnici. E l’ho fatto, al pari di tanti altri professori, per una scelta di campo, oserei dire per una scelta “di missione”. Stare nelle periferie, stare dove ci sono i problemi, stare per conoscere, combattere i pregiudizi con la consapevolezza di maneggiare con competenza ciò di cui si parla, e non pontificare per sentito dire. Nel mio primo articolo, ho provato a rispondere nel merito a una equazione che tu stabilivi, fra il bullismo, e le scuole che raccolgono studenti di basso censo. Era un’equazione sbagliata, a mio parere, e se a qualcosa valgono i macro-dati, nella pagina stessa di Repubblica che oggi ospita la tua replica, sono riportati dei numeri che contraddicono la tua tesi: la maggior parte degli atti di bullismo censiti, il 19.4% avvengono nei licei, con una media che secondo il ministero, è di quasi un punto e mezzo inferiore a quella degli istituti professionali, e di quasi tre punti inferiore a quella degli istituti tecnici.
Ma il nudo dato, nella sua brutalità ci dice molto meno di quello che racconta l’esperienza: mio padre attraversava tutte le mattine un pratone di campagna, sul confine del raccordo anulare di Roma, per andare ad insegnare nell’istituto Lucio Lombardo Radice (vedi bene che anche i nomi non sono casuali), proprio nell’anello estremo della città: una scuola piena di ragazzi di periferia, di pendolari, di ragazzi che venivano dai Castelli con le corriere di mattina presto. Prima di allora, per quasi un ventennio, il professor Francesco Telese detto “Ciccio”, aveva insegnato in un istituto tecnico del quartiere Monteverde, il “Medici del Vascello”. Ti dico questo, non per indulgere nel lessico familiare, ma perché fra gite, riunioni, feste, cerimonie, manifestazioni, queste due scuole così simili e così diverse, oltre essere stato la casa di mio padre, sono state un po’ un mondo che ho vissuto e conosciuto molto bene, la mia famiglia allargata, una rete, dai professori agli ex studenti, che non si è mai dissolta anche a distanza di anni. Quando mio padre è morto e i suoi colleghi sono venuti a commemorarlo, in una cerimonia laica, le loro testimonianze sono state la miglior apologia dell’istituto Tecnico (e della scuola pubblica) che si potesse immaginare: altro che relazioni ministeriali e ispettori.
Negli anni in cui mio padre insegnava, fra l’altro, io frequentavo un liceo blasonato della capitale, il Visconti, che a poche centinaia di metri da Montecitorio, raccoglieva una umanità molto diversa (per condizione sociale) ma assolutamente simile e parallela per vizi, virtù, tic e passioni. In seguito (nel selezionare gli inviti che raggiungono tutti noi), sono andato a parlare e a confrontarmi in tante scuole, dividendomi equamente tra classici e tecnici, scuole professionali e scientifici del Nord e del Sud, dal Friuli a Gela, verificando sul campo una cosa molto banale, e - se vuoi - quasi disarmante: e cioè che di fronte alla piaga del bullismo siamo tutti drammaticamente uguali, tutti ugualmente indifesi, tutti maledettamente vulnerabili. Il giorno prima che tu scrivessi ero in una di queste scuole apparentemente periferiche - il Leonardo Da Vinci di Maccarese - che invece dovrebbero essere studiate e prese a modello per la loro capacità di essere centrali e contemporanee rispetto ai problemi del nostro tempo.
Questo per dirti che rispetto al tema della violenza praticata ed esibita, la composizione sociale, antropologica e politica delle scuole conta davvero poco o niente. Siamo figli di un tempo televisivo, mediatico, di uno spirito che ci attraversa e condiziona in maniera assolutamente trasversale: quando il bullo si atteggia a youtuber maledetto, parla con il suo stesso slang, le sue stesse pause, il suo stesso tono da banditore della rete, non conta il mestiere di suo padre, ma piuttosto le ore che ha passato a lessarsi i cervello su internet. E in questo - te lo assicuro - genitori ricchi o poveri possono fallire in eguale misura.
Tu hai scritto: “Non è nei licei classici o scientifici, è negli istituti tecnici e nelle scuole professionali che la situazione è peggiore, e lo è - aggiungevi su La Repubblica - per una ragione antica, per uno scandalo ancora intatto: il livello di maleducazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole - osservavi - è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza”. Ebbene, è proprio questo che non è vero. Ed è proprio questo elemento di giudizio tecnicamente “classista” (la definizione è incontestabile) che poi ha trasformato il tuo articolo in un caso. Figurati se non capisco lo spirito con cui lo hai scritto. Ma semplicemente è un errore sostenerlo: infatti non è vero: il livello di maleducazione NON È’ PROPORZIONALE al ceto sociale di provenienza, e scriverlo per me, oltre che essere sbagliato è anche pericoloso. Ricorderai sicuramente il meraviglioso film di Sidney Lumet - ”La parola ai giurati” - in cui un magistrale Henry Fonda, ribalta il pregiudizio di una giuria in un processo per omicidio in cui tutti sono convinti che l’assassino sia un ragazzo di periferia, proprio perché è cresciuto in periferia in mezzo a tanta violenza e a tanta ignoranza. Grande film sul dubbio e sulla democrazia, in cui il progressista Fonda demoliva per principio il luogo comune (il film è del 1957) .
Non c’è dubbio che molti di coloro che ti hanno insultato lo abbiano fatto senza aver letto il tuo articolo, e magari commentando il semplice riverbero di una tesi che hanno orecchiato. Ma è altrettanto certo che tutti quelli che ti hanno criticato a ragion veduta (e sono tanti) lo abbiano fatto contestando proprio questa affermazione. Dove ci porta questo dialogo? Dalle parti di Pasolini e di Don Milani, ovviamente, ma non per evocarli come spiriti, come feticcio o come testimoni di accusa, quanto piuttosto per provare a fare una riflessione sui tempi che viviamo. Tu dici: sono stato frainteso da molti perché ho compresso in 1500 caratteri di una rubrica temi molto importanti e difficili da discutere. Vero, senza dubbio. Ma poi in quell’Amaca hai scritto, in maniera estesa e chiara: “Il popolo è più debole della borghesia, e quando è violento - aggiungevi - è perché cerca di mascherare la propria debolezza, come i ragazzini tracotanti e imbarazzanti che fanno la voce grossa con i professori per imitazione di padri e madri ignoranti, aggressivi, impreparati alla vita”. Questo tuo secondo giudizio ti ha iscritto d’ufficio in una categoria-bersaglio privilegiata, quella del radical-chic, che qualcuno dei tuoi non richiesti difensori d’ufficio ha poi inopinatamente evocato persino contro di me. Ma cosa è un radical chic?
Il punto è che io credo davvero che sostenere questa tesi sia radicalmente sbagliato e pericolosamente snobistico. Il “popolo” di oggi non è un demone, non è più debole né più forte della borghesia, in questo paese - e nelle sue scuole - l’idea che si possa identificare queste categorie sociali nei comportamenti collettivi dei ragazzi mi sembra davvero molto difficile. Se la borghesia che rimpiangi è quella delle belle lettere e delle buone maniere, caro Michele, è esattamente come il popolo che rimpiango io: quello estinto da almeno mezzo secolo. Ecco perché sostenere questo non è come rimproveri “populismo”. Ovvero quello che tu definisci: “la cosa più antipopolare, dunque più di destra, mai inventata sulla faccia della terra”.
Casomai è il contrario: la destra ha vinto, e (talvolta) piace al popolo (ma anche alla borghesia) perché la sinistra definisce “populista” tutto quello che non conosce o non riesce a capire. La destra ha vinto perché la sinistra è chiusa dentro la sua fortezza ZTL incapace di sporcarsi le mani e di andare a vedere con i propri occhi, come ha fatto nella sua storia.
La destra vince perché questa sinistra sente il bisogno di demonizzare ciò che non vuole spiegare. E perché, in questo pezzo di mondo che dice dei figli del popolo “sono diventati di destra perché c’è il populismo”, oppure “non ci votano più perché sono bulli, rozzi e maleducati”, temo che, almeno oggi, ci sia anche tu. Non per cattiveria, ma per deficit di conoscenza o pigrizia intellettuale.