Il sensazionalismo dei media sui suicidi uccide più di Blue Whale
Fa molta amarezza sentire parlare della sfida on line tra gli adolescenti e del suicidio in modo così grossolano

L'idea del suicidio è un buco nero. Morire è finirci dentro. Una cavità oscura che sospende la coscienza di sé e fa sembrare la morte meno dolorosa della vita. Un sollievo non una tragedia. Il grande scrittore americano David Foster Wallace, morto suicida, descriveva la tentazione di morire come una reclusione in una casa in fiamme, con il salto dalla finestra come unica via di fuga. “La chiameresti suicidio o salvezza?”. E' un'alterazione, chiaramente. L'addio a sé stesso, alla propria mente vigile prima ancora che alla vita. Suicidarsi è definito gesto estremo, ed è in effetti l'estrema cancellazione di ogni limite, ogni argine. Come si formi tale intenzione, e come si decida di passare dall'idea al gesto, è uno sguardo oltre il muro. Nessuno è in grado davvero di darlo.
Il racconto grossolano
Per questo, fa molta amarezza sentire parlare di suicidio in modo così grossolano, come si sta facendo in questi giorni con la moda mediatica (che è dei giovani o dei media?) della cosiddetta Blue Whale. Una sorta di sfida on line che condurrebbe i giovani adolescenti prima a gesti di autolesionismo, poi di pericolo, infine di suicidio. Ma è il gioco a portare i ragazzi a uccidersi, o il fatto che se ne parli tanto? E a sproposito. Una bella inchiesta di Valigia Blu, a firma Claudia Torrisi e Andrea Zitelli, ripercorre tutto il modo con cui i media, prima stranieri poi italiani, hanno raccontato la vicenda Blue Whale, evidenziando incongruenze, limiti, scorrettezze, omissioni, e arrivando a ipotizzare che se qualche effetto drammatico, questo gioco lo ha avuto, forse è stato più per il fatto che ne sia parlato in questo modo che non per il fatto in sé.
Nessuno accetta il suicidio di una persona cara
Bisogna partire da tre evidenze. La prima è che nessuno dei parenti di un suicida è pronto ad accettare questa violenta scelta di sottrazione. Già non si è preparati mai ad affrontare la morte di una persona cara; doverla elaborare sapendo che se ne è andata volontariamente è ancora più complicato. I genitori di un adolescente suicida, infatti, ricevono due pugni in faccia: la morte e quella tragica volontarietà. Se c'è anche solo una remota possibilità che quel suicidio non sia stato un gesto del tutto volontario, è evidente che un genitore vi si aggrapperà.
Il primo errore
Appare quindi come errore iniziale, quello del sito russo Novaya Gazeta, che nel maggio 2016 parla per la prima volta dei Gruppi della morte su Internet. Nell'articolo – come evidenziato dall'inchiesta di Valigia Blu - si scava nei suicidi di 130 persone tra aprile 2015 e aprile 2016 e questi vengono collegati alla suggestione creata da alcuni gruppi online. L'inchiesta del sito parte, in realtà, dalla intervista a due madri di due adolescenti che si sono suicidati. La prima buttandosi da un palazzo a 12 anni. Le mamme raccontano dei gruppi che le due frequentavano on line e riportano alcune cose scritte da loro. Ma in nessun caso c'era una prova di collegamento tra il gesto delle due e i dialoghi avuti sul web.
Leggere il disagio
E qui si arriva alla seconda evidenza: il disagio giovanile si compone come un mosaico. Ci sono mille tasselli che disegnano quadri di sofferenza: spesso hanno origine in famiglia, altre volte a scuola, nella società. Bullismo, violenze, perfino delusioni d'amore. Che però, mai, da soli portano al suicidio. Altrimenti i numeri sarebbero assai più alti. C'è sempre un meccanismo interiore, un disagio moltiplicato, una incapacità di leggerlo per tempo, un dolore non curato, una sofferenza di cui non si è parlato. Non ci si suicida perché te lo ordina uno.
L'istigazione
Questo discorso, però, non elude del tutto la questione e arriviamo alla terza evidenza: l'istigazione al suicidio, oltre ad essere un reato penale, è anche un comportamento evidenziato dagli psichiatri. Uno degli amministratori dei gruppi russi incriminati, Philipp Budeykin è finito agli arresti proprio con l'accusa di aver incoraggiato degli adolescenti al suicidio. Ma l'istigazione è difficile da dimostrare, e anch'essa ha tante sfumature. Agisce quando l'istigatore, in realtà, contribuisce a creare il disagio più che a provocare la scelta finale. E l'istigazione non è solo diretta. A volte è anche una suggestione collettiva.
Effetto Werther
Quando fu pubblicato il memorabile romanzo di Goethe dal titolo I dolori del giovane Werther, si parlò di una catena di suicidi per amore avvenuti in tutta Europa. Pare che molti giovani delusi per motivi sentimentali, prima si riconoscessero nel protagonista romantico e poi decidessero di emularne il gesto. Ma anche in quei casi, il dibattito arrivò ad un punto cruciale: erano suicidi per delusione d'amore o per emulazione? Qual era la causa? Lo avrebbero fatto lo stesso anche senza leggere il libro? E quanti dei delusi d'amore che hanno letto il libro poi, in realtà, non si sono ammazzati?
La catena emulativa
Negli anni Settanta si tornò a parlare di effetto Werther grazie ad alcuni studi sociologici, che provarono a stabilire connessioni tra i gesti suicidari e il modo e la diffusione con cui ne parlavano i media. Si arrivò a dimostrare che effettivamente c'era una catena di emulazione, nata nel legame tra racconto giornalistico e sensazionalistico del suicidio e il gesto. Naturalmente nessuno poteva pensare che ci fosse un automatismo diretto, perché nei fatti non c'è. Ma che ci sia come un detonatore collettivo, che il sensazionalismo dia fuoco a una miccia già costruita, è possibile, anche se capire – come in certi giochi tra bambini – cosa comincia prima e chi dà il via, appare sempre difficile.
Collage superficiali
Tornando alla Blue Whale, l'inchiesta di Valigia blu, dimostra come, sia in Russia, sia poi su alcuni giornali inglesi, sia sui quotidiani italiani nel 2016, sia infine nei servizi delle Iene, nel maggio scorso, si sia fatto un lavoro di collage e suggestioni che ha, spesso, tirato conclusioni che nella realtà non c'erano; che ha spesso messo insieme frammenti che non combaciavano e che, in definitiva, sembra aver avuto alla base più la volontà di dimostrare in modo spettacolare e sensazionalistico una tesi precostituita che non quella di cercare la verità.
L'effetto paradossale
Il lavoro di Valigia blu evidenzia, uno dopo l'altro, i limiti del lavoro di inchiesta dei giornalisti russi, che si sono poi moltiplicati in termini di superficialità e tendenza allo show, a cascata, su chi, negli altri Paesi, sostanzialmente riprendeva quella notizie, ci costruiva sopra un proprio ragionamento e ne tirava una tesi. Con un effetto drammatico e paradossale: se ne parlava per mettere in guardia i ragazzi e si finiva con accendere, nelle menti già provate, quella miccia disegnata.
Il picco dopo e non prima
La dimostrazione che di Blue Whale in Italia si parlava poco e non incideva quasi per nulla sui comportamenti degli adolescenti arriva proprio dal lavoro di Valigia blu, che ha studiato i motori di ricerca e ha evidenziato come, prima della messa in onda dei servizi delle Iene, nessuno cercasse Blue Whale sul web, mentre dopo sono stati in tantissimi. Stesso discorso per i trend topic di Twitter. Dalla seconda metà di maggio, tutti a parlarne. Con l'effetto tragico che in molti ci hanno cominciato a “giocare” dopo i servizi, e non prima.
L'emulazione italiana
Se qualche caso si è cominciato a registrare nelle ultime settimane, quindi, sembra più per l'effetto di emulazione mediatica che non per le conseguenze stesse del tragico game nato in Russia. Anche perché fino ad aprile, casi legati a Blue Whale non sono stati registrati dalla cronaca italiana, mentre dopo la Polizia postale ha parlato di almeno 120 segnalazioni in tutta Italia. Casi in cui, peraltro, per grande parte, i ragazzi sono entrati per gioco, per curiosità, dopo averne letto, e senza avere alcuna reale intenzione di giungere alla conclusione dei celebri 50 passaggi, fermandosi molto prima e senza, quindi, comunque costruire un vero allarme sociale.
Parlarne con cautela
La vicenda, nella sua complessità, ci dice quello che nello studio della deontologia giornalistica è un tema già presente da tempo: del suicidio, sui media, si deve parlare con molta cautela. Non solo per questioni di privacy (è pur sempre una scelta individuale di dolore che ha radici nel vissuto, nella storia personale) ma anche per evitare l'effetto emulativo. Il disagio mentale esiste. La tentazione di farla finita, saltando dalla finestra di una casa in fiamme, accompagna l'uomo da sempre. Il disagio giovanile, poi, è diffuso, ha tante facce, tante origini, e va intercettato e curato. Su tutti questi elementi, i media devono esercitare un supplemento di responsabilità. Parlarne troppo, parlarne in modo maldestro, costruirci uno show, alimentare allarmi, tirare deduzioni arbitrarie, enfatizzare, soffiare sulla suggestione, non accompagnare con un racconto equilibrato il grande tema del suicidio, soprattutto quando si parla di minori, significa trasformarsi paradossalmente nel gioco stesso su cui si è voluto costruire l'allarme. Partiti da una buona intenzione, almeno così presentate, ci si è trasformati nel problema.