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[L’inchiesta esclusiva] Tutto l’utile agli azionisti, ecco la norma cancellata che ha trasformato la concessione di Autostrade in una miniera d’oro

Per legge fino a poco prima delle privatizzazioni la società Autostrade spa non poteva distribuire dividendi superiori all’8 per cento. Poi la norma è stata cancellata per favorire il privato. E così il pedaggio è diventato un affare immenso. Non solo, per contratto i Benetton hanno anche incassato un contributo pubblico pari a 10 milioni di euro

di Giuseppe Caporale, direttore TiscaliNews   
Autostrade: traffico
Autostrade: traffico

C’è un comma scomparso nel contratto di concessione tra lo Stato e Autostrade, una norma cancellata che ha trasformato il pedaggio degli automobilisti italiani da una piccola tassa pubblica a una immensa tassa privata che ha consentito dividendi miliardari e che porterà nelle tasche della famiglia Benetton (entro 2038) quasi 4 miliardi di euro. E’ un comma importante che è stato cancellato alcuni anni prima della vendita e della privatizzazione nel silenzio generale della politica italiana. Era una norma che imponeva un tetto rigidissimo al dividendo e quindi anche all’utile che si poteva trarre dalla gestione di questo immenso asse viario lungo tremila chilometri. 

La regola cancellata del dividendo bloccato

“Il dividendo non potrà essere superiore all'8 per cento”. Così era scritto nel contratto tra Anas e la società “Autostrade”, quando quest’ultima era di proprietà dall’Iri (dunque dallo Stato). E alla base c’era la legge 287 del 1971 con primo firmatario il presidente Giuseppe Saragat (che appena pochi anni indietro aveva inaugurato proprio il ponte Morandi di Genova crollato il 14 agosto scorso). 

Tutti gli utili allo Stato

Così recitava la norma: "A decorrere dal compimento del terzo anno di apertura al traffico dell'intera autostrada e successivamente ad ogni scadenza di quinquennio fino al termine del periodo di concessione saranno devoluti allo Stato, quale canone di concessione, i diritti di pedaggio effettivamente e complessivamente introitati, dedotte, nei limiti di cui ai successivi commi, tutte le spese di esercizio, comprese le spese di gestione e di amministrazione, quelle di manutenzione ordinaria e gli oneri finanziari e tributari, nonché gli ammortamenti finanziario e industriale, l'accantonamento per innovazioni, ammodernamenti e completamenti, nonché, infine, l'assegnazione di un dividendo al capitale dell'ente concessionario. Le spese e gli oneri, di cui al precedente comma, saranno deducibili, solo in quanto effettivamente sostenuti e regolarmente giustificati, entro il limite percentuale di essi previsto nel piano finanziario e sue eventuali modificazioni; l'ammontare dell'accantonamento annuo per innovazioni, ammodernamento e completamenti non potrà superare il 10 per cento dell'effettivo e complessivo introito lordo annuale per diritti di pedaggio. Il dividendo, di cui al precedente primo comma, non potrà essere comunque superiore all'8 per cento del capitale dell'ente concessionario, dopo le assegnazioni a riserva legale. Al termine della concessione, anche per dichiarata decadenza, dovranno essere devolute allo Stato, oltre a tutte le attività reversibili, le quote non utilizzate sia dell'accantonamento, che dell'ammortamento industriale".

Con il tetto niente gallina dalle uova d’oro

E se questo articolo di legge fosse stato ancora in vigore, ad esempio, il dividendo garantito da anni agli azionisti di “Autostrade per l’Italia” pari circa a 560 milioni di euro l’anno (ovvero 14 miliardi di euro entro il 2038) sarebbe precipitato a 45 milioni. E i 14 miliardi sarebbero diventati meno di un miliardo. E l’utile eccedente sarebbe servito per finanziare ulteriori nuovi investimenti oppure per ottenere la decurtazione del pedaggio, che invece proprio in questi anni è esploso.

I due errori nel contratto

“Quella norma fu abolita dal governo dopo la metà degli anni 90 per rendere più appetibile la concessione ai privati” racconta un ex dirigente di Autostrade per l’Italia “e forse l’8 per cento di tetto al dividendo poteva essere troppo vincolate per il mercato privato. Ma l’errore probabilmente è stato quello di averlo tolto del tutto. Si poteva alzare la percentuale così da vincolare il concessionario ed evitare che si lucrasse eccessivamente sul pedaggio autostradale degli italiani”.

Un asset venduto ad un prezzo troppo basso

L’altro grande errore probabilmente è stato il prezzo di vendita con cui l’allora governo Prodi cedette il pacchetto azionario rilevato poi dalla famiglia Benetton. Gli imprenditori trevigiani con un miliardo e 500 milioni di euro presero il controllo del più grande asset autostradale italiano (rilevando prima il 30 per cento e pochi anni dopo lanciando un’opa per acquisire tutto il resto). Numeri che stridono ad esempio con la gara europea svolta intorno al 2002 per la concessione di una rete autostradale molto più piccola (A24 e A25) pari al 3 per cento di tutto il tracciato italiano. In questo caso il gruppo dell’imprenditore Carlo Toto per vincere ha dovuto impegnarsi a versare nelle casse pubbliche 750 milioni di euro. 

Dieci milioni di euro di contributi

Dulcis in fundo, l’articolo 6 dell’attuale contratto tra “Autostrade per l’Italia” e Anas prevede anche un contributo pubblico complessivo di 20 miliardi di lire (dieci milioni di euro) dal 1997 al 2016. Soldi pubblici, ulteriori contributi per finanziare una società privata che da sola con la concessione ottiene già i margini di profitto che abbiamo ormai imparato a conoscere.

di Giuseppe Caporale, direttore TiscaliNews   

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