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[L’analisi] L’assegno da quasi 4 miliardi che finisce nelle tasche dei Benetton. Ecco i dettagli del grande affare autostrade

La convenzione, infatti, garantisce agli azionisti di Autostrade dividendi per un totale di 560 milioni di euro l’anno fino al 2038, ovvero 14 miliardi di euro per l’intera durata della concessione. Volete sapere quanto di questi soldi finirà effettivamente nelle mani dei numerosi componenti della famiglia Benetton? Hanno il 30 per cento di Atlantia, la capogruppo che controlla l’88 per cento di Autostrade. Quindi, più o meno, 150 milioni l’anno, 3 miliardi 750 milioni da qui al 2038

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
La famiglia Benetton
La famiglia Benetton

Profitti fuori mercato, concessioni inamovibili, controlli, di fatto, impossibili. Fare e gestire autostrade, in un paese congestionato e montagnoso come l’Italia, è un mestiere difficile, ma è un affare d’oro. La pubblicazione della convenzione fra le Autostrade dei Benetton e lo Stato, combinata con i dati sul sistema autostradale, comunicati al Parlamento dal ministro Toninelli fornisce un quadro desolante dei rapporti fra il potere pubblico e i gruppi di potere privati, impegnati – i Benetton, come gli altri concessionari, titolari di contratti presumibilmente non diversi – a sfruttare il ricco fiume dei pedaggi. Ne esce fuori l’immagine di una rincorsa fra governi di centrosinistra (a trazione Pd) e di centrodestra (con Lega annessa) ad accontentare colossi internazionali come i Benetton, come consorzi di respiro assai più ridotto, ma di cospicua influenza regionale, in particolare al Nord. Il filo che ci guida è la convenzione con Autostrade. I numeri sono rivelatori, ma puramente indicativi. La convenzione traccia, infatti, i parametri finanziari dei successivi 25 anni di durata del contratto, ma risale al 2013, cinque anni fa. In realtà, l’azienda aveva prospettato un aggiornamento, ma, l’anno scorso, in un soprassalto di fermezza, il ministro Del Rio e il governo Gentilonilo hanno bocciato. Ne sappiamo poco: l’unica cosa certa è che i Benetton volevano di più.

La gallina dalle uova d'oro

Vent’anni fa, vendendo Autostrade, lo Stato incassò l’equivalente di 8 miliardi di euro. Oggi, la percentuale che ricava dei pedaggi è il 2,4 per cento, una cinquantina di milioni l’anno. Più o meno un decimo di quello che si mettono effettivamente in tasca gli investitori privati. La convenzione, infatti, garantisce agli azionisti di Autostrade dividendi per un totale di 560 milioni di euro l’anno fino al 2038, ovvero 14 miliardi di euro per l’intera durata della concessione. Sono soldi distribuiti in Borsa sulla base dei risultati di bilancio, quindi (a parte le imposte personali da pagare successivamente, come l’Irpef) al netto di oneri, fiscali e non, a carico dell’azienda.Volete sapere quanto di questi soldi finirà effettivamente nelle mani dei numerosi componenti della famiglia Benetton? Hanno il 30 per cento di Atlantia, la capogruppo che controlla l’88 per cento di Autostrade. Quindi, più o meno, 150 milioni l’anno, 3 miliardi 750 milioni da qui al 2038.
Come si arriva a queste cifre? Il calcolo è complesso. Il punto di partenza, comunque, è la fissazione preventiva e garantita di un guadagno sul capitale investito pari al 10,21 per cento. Lordo, però. Tolte le tasse che l’azienda deve pagare al momento di formulare i bilanci si riduce al 6,85 per cento dei ricavi netti. E’ tanto? E’ poco? Giudicare sembrerebbe difficile per i non addetti ai lavori. E, invece, no. E’ semplice e anche i profani possono farsi un’idea. Secondo i tecnici dell’Unione europea (a cui le concessioni vanno sottoposte) quei soldi, infatti, sono troppi. A Bruxelles giudicano che il rendimento lordo non dovrebbe superare il 4-6 per cento, altro che il 10. Insomma, circa la metà. E’ un punto cruciale, perché se le concessioni, invece di essere eterne, venissero rimesse periodicamente a gara, come previsto in teoria, la base del rendimento garantito all’investitore sarebbe quella indicata dalla Ue, non certo il 10 per cento spuntato nella concessione attuale. E questo spiega nitidamente perché le concessioni non vengono mai rimesse a gara. A Roma, tuttavia, hanno scelto di non seguire il parere della Ue. E Autostrade ha serenamente rilanciato: nella concessione aggiornata – ma rimasta in sospeso dopo la bocciatura del ministero – il ritorno garantito sull’investimento non era più del 6,85 per cento, ma del 7,98 per cento, sempre al netto della tasse.

I profitti nascosti

Il guadagno dei concessionari, peraltro, è più alto di quello garantito dal testo della concessione. Il profitto assicurato, infatti, risulta dal confronto fra ricavi e investimenti previsti per la manutenzione o l’ampliamento. Ma a chi vanno i soldi che vengono investiti? Il codice degli appalti prevede che solo il 20 per cento dei lavori previsti venga effettuato direttamente dal concessionario. Ma per le autostrade (l’emendamento fu proposto dal Pd) si è fatta un eccezione. I lavori realizzabili in proprio sono non il 20, ma il 40 per cento. E’ una differenza cruciale per quanto riguarda i ricavi. Autostrade, ad esempio, (come i Gavio e gli altri concessionari) può affidare quel 40 per cento dei lavori all’azienda che controlla nel settore (Pavimental) che a sua volta appalterà la commessa a ditte più piccole, con risparmi anche del 30 per cento sulla cifra stanziata. I quattrini in ballo sono tanti. Sempre Autostrade si è impegnata ad effettuare, entro il 2038, investimenti sull’ampliamento della rete per 10,3 miliardi di euro, che dovranno essere appaltati. Analogamente, dovranno essere appaltati 7,3 miliardi per la manutenzione ordinaria. Vuol dire 6-7 miliardi di lavori appaltabili da parte di Pavimental.
Una concessione ricca come questa delle autostrade consente anche altre vie di guadagno. Superata la fase iniziale, infatti, la strada per la concessionaria è in discesa. Il flusso di liquidità consente di rimborsare, via via, i debiti. Nel 2012, Autostrade, aveva debiti per 10 miliardi di euro che il fiume dei pedaggi consente, nel corso degli anni, di rimborsare, azzerando i relativi interessi. Risultato? Nel 2038, a scadenza (presunta) della concessione, Benetton e gli altri azionisti si ritroveranno in cassa, freschi e liquidi, 9 miliardi di euro, da distribuire, eventualmente, fra i soci.
Ad alimentare questo meccanismo c’è, ovviamente, lo scorrere dei pedaggi nelle casse dell’azienda. La convenzione prevede che le tariffe non possono essere adeguate all’inflazione per più del 70 per cento. Più, però, la remunerazione degli investimenti effettuati sulla rete. E’ intervenuta la Ue: l’adeguamento deve avere un tetto, pari allo 0,5 per cento oltre il tasso di inflazione. Comunque alto, quando l’inflazione viaggia, come oggi, all’1 per cento.

 I controlli inesistenti

Pronti a fare promesse quando si tratta di stilare i testi della concessioni, i concessionari hanno però il freno tirato al momento di fare questi investimenti. Fra il 2008 e il 2017 sono stati investiti sulla rete autostradale italiana 16,48 miliardi di euro, contro i 25,4 previsti nelle concessioni. “Manca il 35 per cento degli investimenti previsti” dice il ministro dei Trasporti, Toninelli. E, del resto, chi doveva provvedere a sorvegliare e pungolare questi concessionari e i loro 6 mila chilometri di rete? Fra il 2007 e il 2017 gli stanziamenti al ministero dei Trasporti per i controlli sulle autostrade sono scesi da 16,6 a 7 milioni l’anno. Servono a pagare non i 250 controllori previsti in organico, ma i 110 effettivamente in servizio.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
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