Nel '93 la lunga notte del golpe strisciante: Riina fu il braccio armato di un piano eversivo
Il "capo dei capi" fu protagonista della terribile stagione delle stragi mafiose, dietro cui rimane l'ombra del "terzo livello" e di un tentativo di golpe strisciante. Coltivare il vizio della memoria può servire a trovare il giusto discrimine fra Stato di diritto e certezza della pena
"Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio: a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l'esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ". Sono le parole di Carlo Azeglio Ciampi, in una memorabile intervista del 2010 su Repubblica in cui l'ex presidente del Consiglio rievocava gli attentati di Cosa Nostra che squarciarono la notte del 27 luglio 1993 rispettivamente a Milano e Roma.
Furono 5 i morti in via Palestro, a Milano. Ventidue i feriti nella capitale, nell'esplosione di due autobombe in San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano. Due mesi prima, il 26 maggio, era esplosa la bomba di via dei Georgofili a Firenze, cancellando le vite della piccola Nadia, 9 anni e Caterina, di appena due mesi, insieme ai loro genitori. Con loro moriva anche uno studente, Dario Capolicchio, 22 anni. Gravissimi i danni al patrimonio artistico fiorentino, con il crollo della Torre del Pulci, sede dell'Accademia dei Georgofili. Rimase danneggiata anche una parte della Galleria degli Uffizi. Il paese, ancora scosso per le stragi di Capaci e via D'Amelio avvenute un anno prima, assisteva attonito a un nuovo attacco finalizzato a destabilizzare col terrore la democrazia e il sistema delle istituzioni. Si parlò in seguito di una strategia voluta dalla mafia per spingere lo Stato alla "trattativa", dopo le condanne durissime del Maxiprocesso, confermate dalla Cassazione in via definitiva il 30 gennaio 1992. Ma non fu solo quello: nell'intervista Ciampi si diceva pienamente d'accordo con le parole pronunciate in quei giorni dall'allora procuratore antimafia Piero Grasso, oggi presidente del Senato: gli attentati servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una nuova "entità politica", che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani Pulite. Un "aggregato imprenditoriale e politico" che doveva preservare lo status quo a fronte del tramonto del vecchio "CAF".
L'ombra del terzo livello dietro la notte delle bombe
Ciampi ricorda i momenti drammatici di quella maledetta nottata: "Arrivai a Palazzo Chigi all'una e un quarto dopo la mezzanotte, convocai un Consiglio supremo di difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi "presidente, dobbiamo reagire". Alle 8 del mattino riunii il Consiglio dei ministri, e subito dopo partii per Milano". Il golpe non ci fu, "Grazie a Dio". Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che solo in parte è stato sollevato.
Rimane ancora da chiarire appieno, ad esempio, il ruolo avuto da pezzi di apparato nel fallito attentato all'Addaura contro Giovanni Falcone. Un tassello indispensabile per far luce, una volta per tutte, sull' esistenza del cosiddetto "terzo livello", quello delle relazioni e delle collusioni mafiose di settori deviati dello Stato e di pezzi della politica coinvolti nelle stragi di mafia. Depistaggi, testimoni ammazzati, episodi ormai lontani nel tempo ma che è necessario ricordare, perchè è lì che si trova la chiave di tutti i misteri siciliani e quella che svela le trame legate agli ultimi trent'anni della vita della Repubblica.
Ed è in questo contesto che si colloca la vicenda di Totò Riina, il "capo dei capi" di Cosa Nostra, protagonista assoluto della stagione stragista ed interlocutore privilegiato della "trattativa" Stato-Mafia; ideatore, probabilmente insieme ad altri, della strategia che doveva assicurare un passaggio "non traumatico" dalla prima alla seconda Repubblica, oltre che ammorbidire la "linea dura" delle istituzioni contro i condannati per mafia. Riina fu il braccio armato di un piano eversivo di cui non sono mai stati resi noti i mandanti politici occulti, ma che ricalca -nello stile e nei modi- gli anni bui della strategia della tensione, quelli in cui, dopo il movimento del '68 e l'autunno caldo, prese corpo una saldatura fra il terrorismo neofascista ed alcuni settori militari e politici in funzione anticomunista. Vent'anni dopo, in presenza di un quadro democratico diverso e meno ideologizzato, dovevano necessariamente cambiare gli esecutori materiali di un piano che con ogni probabilità era finalizzato, ancora una volta, a scongiurare la vittoria della sinistra alle elezioni dopo la caduta del vecchio sistema di potere garantito dalla corrente dorotea in Sicilia.
Ecco perchè i protagonisti di primo piano di quella stagione, da Ciampi a Veltroni, a Pietro Grasso, parlano di zone oscure e del rischio concreto di un golpe, tentato (e forse in parte riuscito, almeno nelle intenzioni di cambiare il corso naturale della storia) al culmine dei tragici giorni che vanno dalla Strage di Capaci agli attentati del '93.
La forza dello Stato ed il dovere della memoria
L'annullamento in Cassazione della decisione del Tribunale di sorveglianza che aveva rigettato le istanze di revoca del 41 bis a fronte del peggioramento delle condizioni di salute di Totò Riina hanno provocato, inevitabilmente, una valanga di polemiche e riaperto le ferite mai rimarginate dei familiari delle vittime di mafia. Si è molto discusso, in particolare, di quale "dignità" debba essere riconosciuta ad un uomo riconosciuto colpevole di oltre 500 delitti, condannato a ben 19 ergastoli e che da autorevolissimi osservatori (Nicola Gratteri e don Ciotti, citando due nomi per tutti) viene ancora indicato come pienamente in grado di intendere e di volere, dunque di nuocere. Si è detto, giustamente, che le regole dello Stato di diritto devono valere per tutti, anche per il mandante degli omicidi di Falcone e Borsellino. Perchè negare i principi di umanità riconosciuti dall'articolo 27 della Costituzione e quelli dell'articolo 146 del codice penale che disciplina i casi di incompatibilità con il regime di carcerazione per sopraggiunti motivi di salute, equivarrebbe a creare un precedente pericoloso e pieno di incognite.
E' altrettanto vero, però che Stato di diritto e certezza della pena sono due elementi inscindibili, almeno quanto lo è il principio di legalità ed diritto alla dignità dell'uomo. Coltivare il vizio della memoria può aiutare a trovare, forse, il giusto discrimine fra giustizia e vendetta, fra la civiltà e la barbarie. Riina fu-giova ripeterlo- esecutore lucido e spietato di un progetto di cui ancora oggi non conosciamo tutti gli inquietanti contorni, e che solo con il grandissimo impegno civile di alcuni magistrati e cittadini coraggiosi, è stato possibile contrastare, preservando la democrazia.
Anche di questo bisogna tener conto, del sacrificio di tante vite, del valore della testimonianza, del respiro ampio della retrospettiva che restituisce il senso profondo e drammatico della storia. Perchè in quella lunga notte del '93 abbiamo tutti corso un grande rischio, di cui oggi non possiamo dimenticarci.
Post scriptum. Occorre ricordare che il mai pentito boss dei Corleonesi in realtà è fuori dal carcere dal novembre del 2015. A causa delle sue condizioni di salute, è stato trasferito all'ospedale Maggiore di Parma, presidio clinico universitario tra i fiori all'occhiello della ricerca italiana, dove viene seguito sotto costante controllo medico per le patologie renali e cardiache di cui è affetto, e dove riceve le visite mensili dei parenti. Riina dunque gode già oggi in ospedale di un trattamento non molto dissimile da quello di qualsiasi altro paziente nelle sue stesse condizioni di salute.