[Il ritratto] Gli amici e i nemici di Marchionne: lo scontro con la Camusso, la luna di miele con Renzi e la proposta di Berlusconi
Suggeritore di Renzi, premier ideale del Cav, è uscito indenne pure dallo scontro tra Obama e Trump. Marchionne disse: “La Fiat è sempre governativa”. “Voterei Matteo”, “Silvio? Un grande”. La politica lo ha sempre guardato con rispetto e interesse, i sindacati no. Lo scontro più duro con Susanna Camusso che gli ha attirato le antipatie della sinistra tradizionale

È vero che Sergio Marchionne ha fatto del maglione un simbolo della sua figura di manager fuori dagli schemi, che la sua mise avrebbe certo fatto inorridire l’Avvocato, sempre inappuntabile e capace di dettare le regole della moda fino a rendere plausibile il vezzo di portare l’orologio sopra il polsino della camicia. Ma, della vecchia leadership di Fiat – fino dai tempi del senatore Giovanni Agnelli sr. – il manager italo-canadese venuto dalle corporation statunitensi e domiciliato nel Cantone svizzero di Zugo ha saputo mantenere un tratto essenziale. Lo ammise lui stesso: Fiat è, per definizione, un’entità filogovernativa. Una bussola, questa, che Marchionne ha tenuto saldamente in mano fino all’ultimo, non solo in Italia ma anche negli USA, il terreno su cui FCA, la sua creatura più ambiziosa, ha finito per giocare la sua partita decisiva. Facendo sparire, fatalmente, la sua figura, dai radar della politica italiana.
L’ultima, clamorosa, parte da protagonista qui da noi, l’aveva giocata – malgré lui – nel luglio dello scorso anno, quando un Silvio Berlusconi ancora squalificato dalla legge Severino e alla ricerca affannosa di un frontman credibile per il centrodestra, aveva sparato il suo nome con apparente convinzione: "Per il centrodestra punto su Sergio Marchionne. Tra non molto gli scade il contratto negli Stati Uniti, e se ci pensate bene sarebbe l'ideale...". Una mossa ardita, per nulla concordata con l’interessato, che, a stretto giro, ricambiava con un sottile fin de recevoir: “Berlusconi è un grande, ha spiazzato tutti, ma non ci penso neanche di notte”, tra il passaggio di una auto e l’altra al Granpremio d’Austria di Formula 1. Che non si trattasse solo di una boutade, però, lo dimostra la tempestività – e la malizia - con cui uno dei colonnelli, il più impegnato a tenere insieme gli alleati dei Lega e FdI, Giovanni Toti, era intervenuto a stoppare l’ipotesi del Cavaliere: “Marchionne è una persona che ha fatto molto bene nel mondo dell’impresa, certamente una persona di grande valore. Non so se abbia intenzione di scendere in campo. E, soprattutto, non so se ne sarebbe capace. Non credo si debba cercare un altro Berlusconi anche perché non lo troveremmo. Di certo non basta essere un uomo di successo nel mondo dell’impresa, o dell’accademia, o dell’economia, per essere il nuovo Berlusconi. La storia recente lo dimostra.
Prima, molto prima, c’era stato però il flirt con Matteo Renzi. E’ vero che agli esordi politici del sindaco di Firenze, Marchionne era andato giù duro definendo addirittura da Bruxelles Firenze come una “piccola e povera città” con un sindaco che “si crede Obama ma non è Obama”. Ancora qualche mese dopo, quando ormai Renzi si era insediato a Palazzo Chigi, si era perfino sbilanciato per sollecitare un maggiore equilibrio a proposito del jobs act: "Facciamo due mestieri diversi, capisco benissimo il tipo di problemi che sta avendo. Non condivido completamente l'atteggiamento nei confronti del sindacato ma lo capisco. Sono momenti che ho vissuto anch'io".
Già, perché gli esordi di Marchionne alla guida di Fiat erano stati segnati da una dura polemica dell’allora ad con Susanna Camusso a proposito di uno sciopero alla Maserati definito come "irrazionale e incomprensibile" , e dell’interruzione delle trattative per il nuovo contratto, a cui i lavoratori avevano replicato con una lettera aperta in cui scrivevano: "Siamo molto contenti e orgogliosi di essere parte integrante di uno degli stabilimenti più moderni. Non ci siamo mai tirati indietro. Ma ci sono problemi e vanno affrontati. Noi siamo orgogliosi di quello che stiamo facendo alla Maserati, della nostra italianità fatta di risultati eccellenti e di etica del lavoro, ma l'etica del lavoro prevede che ci sia nei rapporti reciproci. Forse dovremmo tutti riflettere sulla gravità delle conseguenze che certe azioni comportano".
Poi ci fu la (relativamente) lunga stagione degli endorsement di Marchionne all’allora presidente del Consiglio e dei riconoscimenti di Renzi nei suoi confronti. Quelli che ancora risuonano nelle parole di queste ore: “Marchionne è stato un grande protagonista della vita economica degli ultimi 15 anni. Con lui ho condiviso molte scelte, discusso sempre, litigato talvolta. È riuscito a dare un futuro alla Fiat, quando sembrava impossibile. Ha creato posti di lavoro, non cassintegrati". In realtà, i rapporti tra i due hanno segnato una parabola evidente, soprattutto nell’alternarsi dei giudizi del manager sull’uomo politico. Nel settembre del 2015, Marchionne, ancora dai box di un gran premio di Formula 1, si era spinto a definire Renzi “la migliore speranza di questo Paese nel 21esimo secolo per accelerare il passo”. E nel gennaio del 2016, parlando a Chicago, al Forum sull’innovazione organizzato dall’Istituto italiano per il Commercio Estero, dove Marchionne era arrivato a sorpresa, era stato ancora più esplicito: "Se me lo chiedete, in Italia voterei per Renzi", indicando nel giovane leader fiorentino l’uomo capace di liberare l’Italia "di un lungo fardello di inefficienze", e di garantire la stabilità di cui le imprese hanno bisogno. aspettava da tempo.
Marchionne doveva a Matteo Renzi – oltre che a una stampa piuttosto distratta e/o benevola - soprattutto di avergli garantito di trasformare la vecchia Fiat nella nuova FCA americana nata dalla fusione con Chrysler. L’unico a mostrare qualche perplessità era stato allora Romano Prodi: “Sono felice che Marchionne sia felice, ma vorrei che fossimo felici anche noi". Prodi aveva riconosciuto a Marchionne di aver "vinto una grande battaglia", con una "ingegnosità finanziaria e una capacità negoziale da lasciare a bocca aperta tutti e da mettere al sicuro il portafoglio degli azionisti" ma non aveva nascosto un certo disappunto: "La Fiat-Chrysler avrà la sede in Olanda, pagherà le tasse in Gran Bretagna e le sue azioni saranno quotate in primo luogo a New York. Tutto questo può anche avere un senso, perché le imprese non hanno alcun obbligo di riconoscenza o di gratitudine, pur tenendo conto che nel rapporto fra la Fiat e l'Italia qualche obbligo vi potrebbe pure essere. Anche se, nella sua storia, di tasse non ne ha certo pagato un'esagerazione, fa tuttavia una certa impressione pensare che la Fiat assuma la cittadinanza fiscale britannica".
Le cose, però, dopo la sconfitta del referendum di fine 2016 e i sintomi del declino delle fortune politiche di Renzi, cambiarono rapidamente. Con l’abituale fiuto politico della dirigenza Fiat, anche Marchionne finì per prenderne atto e per modificare i suoi giudizi: “Quello che è successo a Renzi non lo capisco. Quel Renzi che appoggiavo non lo vedo da un po’ di tempo”. Scaricato, e per di più nell’imminenza della campagna elettorale da cui l’antico sodale sarebbe uscito con le ossa rotte.
Qualcosa di simile è accaduto anche nel rapporto con la politica USA. Non c’è dubbio che, oltre a Sergio Marchionne, l’altro degli artefici dell’operazione FCA sia stato Barack Obama. Con la partecipazione attiva dei sindacati americani. E questo, per inciso, spiega anche la benevolenza che in Italia ha circondato “a sinistra” la trasformazione della vecchia Fabbrica Italiana Automobili Torino proiettandola nell’empireo della globalizzazione. Fiat completava la sua internazionalizzazione uscendo dal guscio europeo e Obama metteva al sicuro, con la prospettiva di rilanciarla, l’industria automobilistica del Mid West, di una delle ultime regioni dominate dai “blue collars” e sicuro – un tempo – bacino elettorale dei Democrats.
Almeno fino all’arrivo sulla scena di Donald Trump e delle sue suggestioni protezionistiche. Vero è che Trump, minacciando la revisione del trattato commerciale Nafta (con Canada e Messico) mette a rischio la convenienza delle forniture delle aziende automobilistiche ma, al tempo stesso, la forte riduzione degli oneri fiscali – un miliardo di dollari - per FCA rappresenta una manna e poi, per un’azienda ormai “americana” e con un mercato interno sconfinato, anche il protezionismo può essere un affare. Come ammesso dallo stesso Marchionne, peraltro.
Resta il nodo delle emissioni, con il rischio che anche il gruppo di Detroit sia preso con le mani nella marmellata, che cada vittima del “dieselgate” che ha colpito Volskwagen e non solo. Vale la pena, allora, di sostenere la linea di Trump, appoggiando l’idea che la revisione degli "standard dell'Epa, come originariamente previsto, è la cosa giusta da fare". "Il processo è nelle fasi iniziali e trarre conclusioni affrettate e ipotizzare un esito sarebbe quindi un errore" ebbe a dire Marchionne, dichiarandosi "ottimista" sul fatto che "il presidente riuscirà a trovare il modo di preservare un programma nazionale che stimoli miglioramenti continui nell'efficienza dei veicoli e al contempo ci permetta di realizzare veicoli che i nostri clienti vogliono acquistare, a prezzi loro accessibili". Un obiettivo che "richiede la volontà di tutte le parti di arrivare a compromessi".
L’importante, allora, era evitare di finire schiacciati nella guerra tra i due Presidenti, con Obama che non vuole che Trump smantelli quanto di buono ha fatto per proteggere l’ambiente e con il secondo che ha già annunciato una profonda deregulation anche in materia ambientale. Anche a costo di far passare l’EPA – l’organo di controllo - come “il braccio armato” di Obama. Filogovernativi anche Oltreoceano. Il modo giusto per incassare gli elogi del presidente, come è avvenuto di recente in un incontro con i leader dell’industria automobilistica riuniti nella Roosevelt Room della Casa Bianca, quando Donald Trump, dopo avere intimato: "Voglio vedere più auto costruite negli Stati Uniti", si rivolse proprio a Sergio Marchionne definendolo, "al momento il mio preferito nella stanza" per aver deciso lo "spostamento della produzione nel Michigan dal Messico". "La ringrazio", - queste le sue parole - così come "le sono grati" gli abitanti del Michigan”.