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[L'intervista] "In Palestina parole e libri sono armi di resistenza. E vi spiego cosa avviene nelle carceri amministrative"

Lo scrittore palestinese Aysar al-Saifi vive a Milano e nei suoi libri racconta la tragedia e l'amore di un popolo. "La mia condanna è per chi vende le armi a Israele e non ferma la guerra", dice a Tiscali News

Antonella A. G. Loidi Antonella Loi   
Aysar al-Saifi durante una presentazione
Aysar al-Saifi durante una presentazione in libreria

E' dentro la mente che risiedono i conflitti. "Da cinque anni ho lasciato la mia casa in Palestina per venire qui in Italia, eppure mi sembra di stare sempre nel mezzo: lì sono un profugo, qui uno straniero. La mia testa è sempre oltre il mare". Aysar al-Saifi, scrittore esordiente di 37 anni, una laurea in Management all’Università di Betlemme, è nato e cresciuto nel campo profughi di Dheisheh, in Cisgiordania, che con i suoi 15mila abitanti è uno dei più grandi tra i 19 costruiti in Palestina dopo la Nakba. Oggi vive a Milano con la moglie italiana e la figlia di tre anni. Indica alcune pagine del suo libro e ci chiede di leggerle. Durante una conversazione con Tiscali News, si sofferma su alcuni passaggi mentre prova a descrivere stati d'animo di cui, forse, è più semplice scrivere che riferire a voce.

“Contraddizioni, sentimenti, dolore, sensazioni inaspettate con cui fare i conti”: è il senso di colpa che sente sulla pelle chi solo "per amore" avrebbe potuto lasciare la sua terra e la sua famiglia in mezzo alla guerra, per costuire una casa altrove. "Con mia moglie ci siamo conosciuti in Palestina dove lei faceva la volontaria per una fondazione italiana. Ci siamo innamorati e dopo un periodo di separazione ho deciso di seguirla", spiega parlando degli anni che hanno preceduto il suo arrivo in Italia. "Dovevo superare quello stare bloccato nel mezzo tra qui e là", si legge nelle righe del suo ultimo libro, Quando i picchetti sono fioriti, preceduto dalle storie del campo profughi di Fiori di gelso – Racconti palestinesi, editi entrambi da Prospero editore. Lo scrittore dice che "l'amore era come una piccola barca che mi tirava fuori dal lago del dolore: bellissimi sentimenti sono nati dentro di me sotto la guerra e mi hanno dato una nuova motivazione per lottare e combattere". Al Saifi in questi mesi è impegnato in molte piazze italiane dove viene invitato per parlare di libri e di Palestina. 

"Almeno ogni due-tre mesi – spiega - vedo la fotografia di qualcuno che conosco, ucciso dall’esercito israeliano negli attacchi a Betlemme. Ho perso tanti amici in questi cinque anni e da quando è scoppiata questa guerra per me è troppo pericoloso tornare". Perché essere uno scrittore in Palestina "significa fare delle tue parole un'arma contro l'occupazione. E la letteratura, la cultura e la scrittura sono un mezzo per preservare l'identità palestinese. Come c'è un'occupazione militare - afferma sicuro al-Saifi -, c'è anche un'occupazione culturale e forse quest'ultima è la più pericolosa, perché lavora per cancellare l'identità". 

Del resto le cronache da Gaza e dalla Cisgiordania ci dicono che centinaia di giornalisti e autori palestinesi sono stati uccisi dal 7 ottobre in poi. "Sì, ma accadeva anche prima: l’esercito israeliano ha sempre cercato di spegnere le voci degli intellettuali. La resistenza si fa anche con i libri", sostiene. Ed è anche per questo motivo, oltre che per una "cura personale", che al-Saifi sente di dover affidare i suoi pensieri alla penna. "Cultura e letteratura fanno parte della resistenza, lavorano come difesa, educazione, consapevolezza pubblica sulle ingiustizie”. Non è un caso, come si racconta in Fiori di gelso, che "le nonne e i nonni nascondessero i libri sotto terra durante la prima Intifada, per salvarli e preservare la conoscenza e la memoria".

Carceri e brain washing

Ma è sulla detenzione amministrativa che al-Saifi vuole poi soffermarsi: un'arma brutale nelle mani dell'Idf (Israel Defence Forces). “Qualche giorno fa hanno arrestato un centinaio di ragazzi e bambini a Betlemme, tutti insieme”, dice parlando del sistema di incarcerazione dei palestinesi sulla base di semplici pretesti. "La punizione per chi non si piega a Israele", afferma. Nelle prigioni si resta per mesi, a volte per anni, senza accuse e senza potersi difendere. Con l’unico scopo di spezzare la giovinezza e fiaccare le famiglie. "Otto persone della mia famiglia si trovano in carcere. Di mio fratello non sappiamo più niente da almeno un anno e mezzo". E spiega che "Israele mette in azione su larga scala la macchina del brain washing, per cambiare le conoscenze e la consapevolezza dei palestinesi. Chi si rifiuta di farsi ‘ripulire’, è segnato. La conseguenza della prigione sono enormi problemi psicologici".

In questo momento solo in Cisgiordania si contano 12.100 persone in detenzione amministrativa, 6.600 a Gaza: molti sono giovanissimi. La resistenza e la resilienza però sono capaci di abbattere i muri e le sbarre, se è vero che dentro queste carceri ci si auto-organizza e, "grazie a dei network culturali clandestini, i ragazzi e le ragazze possono seguire corsi di lingua inglese o di letteratura, come capitato a mio fratello, e anche le Università riescono a far seguire agli studenti incarcerati master e dottorati. Se ti scoprono - precisa - ti trasferiscono subito in un altro carcere, ma anche lì ad accoglierli c'è un altro circolo culturale". Dopo il 7 ottobre però "anche questo è cambiato: un giro di vite generale e il controllo di Israele si è fatto più oppressivo".

La responsabilità dei bambini. E dei governi

La paura è parte della storia. "Fin da piccoli ci portiamo dietro il peso della responsabilità per la nostra terra, dei diritti del nostro popolo. Si smette presto di essere bambini in Palestina", dice lo scrittore ammettendo che si tratta di condizioni inimmaginabili per gli europei. "Ti rendi conto che tutto quello che accade lì non è ‘normale’ solo quando lo guardi da lontano. Non è normale per un bambino non poter andare al mare, giocare in maniera spensierata, ricevere un sorriso – sostiene al-Saifi -. Come non lo è che gli israeliani controllino psicologicamente e fisicamente tutto della nostra vita. Anche i nostri sogni infantili”.

La prospettiva, a queste latitudini, è diversa. Cosa pensare dei governi occidentali e dell’appoggio incondizionato a Israele che intanto continua a massacrare i palestinesi nella Striscia di Gaza anche quando sono in fila per il pane? "La mia condanna è per tutti i Paesi che vendono le armi e non fermano la guerra. Dobbiamo ricordare inoltre che in Palestina combattono anche soldati italo-israeliani". Ma per lo scrittore, particolarmente fastidiosa è "l’ipocrisia collettiva" che permette un "doppio standard" per l’Ucraina e per la Palestina. "Perché loro sono 'aggrediti' e noi no?", si chiede. O, ancora, sulle polemiche attorno alla parola ‘genocidio’ afferma di non capirle. "Ormai anche i ministri israeliani ammettono di usare metodi genocidari – nota al-Saifi -, eppure i media occidentali continuano a giustificare e dare un’immagine distorta di quanto sta accadendo. Purtroppo il mondo supporta Israele o, per dirla meglio, Israele controlla il mondo”. 

Tornare in Palestina, in queste condizioni, non sembra possibile. Aysar Al-Saifi non vede casa sua da due anni e mezzo. Aspetta la fine della guerra. "Potrebbero fermarmi al confine: scrivere libri non è un certo un lasciapassare". Ma più di tutto è importante portare la sua famiglia sua figlia in Palestina, "per farle conoscere i nonni, gli zii, le sue radici palestinesi". 

Antonella A. G. Loidi Antonella Loi   
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