Ecco come la vita di Giulio Regeni ha smascherato gli aguzzini

Nessuno oggi è in grado di dire se un giorno si saprà la verità e si conosceranno i nomi degli assassini e dei mandanti. Si è tentato di far passare lo studente per una spia

Giulio Regeni
Giulio Regeni
di Giovanni Maria Bellu

Non è possibile fare previsioni sugli sviluppi del caso Regeni. Nessuno oggi è in grado di dire se un giorno si saprà la verità e si conosceranno i nomi degli assassini e dei mandanti. Può apparire paradossale, ma il fatto che dopo due mesi di indagini si sia a questo punto è un risultato straordinario il cui merito spetta, oltre che ai suoi genitori e ai suoi legali, soprattutto allo stesso Giulio Regeni, alla sua personalità, alla limpidezza della sua condotta di vita.

Il depistaggio dell’inchiesta è stato avviato immediatamente, ancor prima che alle autorità italiane fosse comunicata la notizia del ritrovamento del corpo. Ed è andato avanti  senza pause attraverso una sequenza di atti diversi, accomunati dalla finalità di screditare la vittima. Se anche una sola di queste operazioni fosse andata in porto, la speranza di trovare la verità sarebbe già morta da tempo.

 Si è tentato di far passare Giulio Regeni per una spia, per un frequentatore di ambienti equivoci, per un consumatore di sostanze stupefacenti, per un gay incosciente che non era stato capace di darsi un contegno adeguato a un paese dove l’omosessualità è punita. Un’attività diffamatoria che non aveva solo l’obiettivo di rendere verosimile la falsa pista del delitto “per motivi personali”, ma intendeva rendere la figura della vittima ambigua agli occhi della pubblica opinione e di far passare l’idea che, sì, aveva subito un trattamento inumano ma, in un certo senso, si era messo nei guai da solo. Un’idea a cui di solito seguono le alzate di spalle, il disinteresse, l’indifferenza.

 E’ l’aspetto più sottile, insidioso, ma anche “interessante” dell’insabbiamento tentato dalla polizia e dal ministero dell’Interno egiziani. Si è trattato, infatti, di un depistaggio molto speciale. Lo si potrebbe definire “depistaggio confessorio”. Dietro di esso, infatti, si vede benissimo una certa idea del mondo e dell’Occidente, si riconosce distintamente la cupa sagoma dello sbirro.

   Ritrovatisi all’improvviso a dover offrire una causale  idonea a tenerli alla larga dal sequestro-omicidio, e verificata subito la impraticabilità della tesi dell’”incidente stradale”, gli apparati dello Stato per prima cosa, poco dopo il ritrovamento del cadavere, convocano in commissariato alcuni degli amici di Regeni per chiedere con insistenza se era gay e faceva uso di droghe. Non ricavano niente di utile, continuano a non sapere quasi nulla sulla sua personalità, ma decidono di sovrapporvi i loro cliché e pregiudizi. Un meccanismo che somiglia molto alla costruzione, in tempi per fortuna molto lontani, di certi nostri capri espiatori (qualcuno ricorda i “gli anarchici”?)  e anche i meccanismi di elusione della verità in certi omicidi eccellenti (Pier Paolo Pasolini non se l’era forse “andata a cercare?”). In definitiva, i depistatori arrivano alla conclusione che, ragionevolmente, un ventottenne italiano di bella presenza può essere gay e può facilmente fare uso di hashish. Era quanto bastava, poi il resto sarebbe  venuto da sé. Certo, non sarebbe stato sufficiente a chiudere il caso. Ma avrebbe offerto a una buona parte dell’opinione pubblica egiziana, e anche a una certa parte di quella italiana, una ragione per smetterla di indignarsi.

Ed ecco che, tanto per cominciare a suggerire qualcosa, il cadavere viene fatto ritrovare nudo dalla cintola in giù. Due giorni dopo, il 5 febbraio, viene fatta circolare la notizia del fermo di due persone (due noti omosessuali) che vengono lungamente interrogate. Altri due giorni e,  il 7 febbraio,  il quotidiano filogovernativo Al Ahram – citando fonti investigative – scrive che Giulio Regeni non è stato rapito dopo essere uscito di casa ma ha raggiunto un’abitazione dove era in corso una festa di compleanno  "in compagnia di un certo numero di amici". L’inchiesta, spiega ancora Al Ahram, si è spostata sulle “frequentazioni” di Regeni. Tanto che "Il generale Alaa Azmy, assistente del direttore del Dipartimento generale delle indagini di Giza, ha esaminato alcuni appartamenti per eseguire accertamenti su coloro che li frequentano e li abitano".

“Accertamenti” che devono essere stati particolarmente efficaci perché due settimane dopo, il 24 febbraio, il ministero dell’Interno fa sapere che essi hanno evidenziato "varie possibilità, tra cui attività criminali o un desiderio di vendetta per motivi personali, soprattutto perché l'italiano aveva avuto molti legami con persone vicino a dove viveva e studiava".  E il 12 marzo – a pochi giorni dalla strage dei ‘cinque finti poliziotti’ – il giornale online Youm7, citando fonti della sicurezza egiziana, parla di un video registrato da una telecamera di sorveglianza non lontana dal consolato italiano che mostra Giulio Regeni intento a “discutere animatamente” con un altro “giovane sconosciuto”. Quasi contemporaneamente compare un testimone che afferma di aver visto con i suoi occhi, il 24 gennaio, cioè il giorno prima della scomparsa, due stranieri che litigavano ad alta voce e di aver riconosciuto in uno di loro – quello che indossava” una camicia rosa” – Giulio Regeni. Tre giorni dopo il blitz con la “natura morta” dei documenti di Regeni fotografati accanto a un pezzetto di hashish, un portafoglio femminile con sopra scritto “Love” e un orologio da donna.

Forse è superfluo, ma va detto che l’intera sequenza appena descritta è un insieme di circostanze totalmente false, inventate e smentite dalla stessa polizia egiziana, molto disinvolta in questo lanciare pietre di fango e nascondere la mano: nessuna festa il giorno della scomparsa, nessun filmato, nessun testimone (quello che si era fatto avanti ha ritrattato), nessun pezzetto di hashish (la proprietaria della casa dove sono stati trovati i documenti ne ha anche indicato il vero proprietario), nessun oggetto femminile (la stessa polizia ha riconosciuto che non era roba di Regeni). Così come è crollato completamente il tentativo di far passare Regeni come “spia”. Non solo non c’è uno straccio di testimonianza che lo attesti, non solo in tutte le mail e le chat  i contatti sono con colleghi o amici, ma più di ogni altra cosa lo dice il conto corrente: c’erano 850 euro. Giulio Regeni spendeva pochissimo per non pesare in alcun modo sulla famiglia. Risparmiava su tutto, anche sui vestiti. Il suo giaccone era un vecchio giaccone del padre.

  Ecco perché il merito del punto a cui siamo arrivati è soprattutto suo. Dopo aver superato brillantemente tutti gli esami quando era in vita, ha superato i più severi esami anche da morto. In un certo senso ha insegnato ai suoi aguzzini che riconoscere la ricchezza e la complessità del mondo ha anche un’utilità pratica. I cliché che gli hanno scagliato contro sono tornati indietro e hanno disegnato il contorno dei loro volti. Ora si tratta di mettere sotto ognuno di quei volti un nome. Non è impossibile. Ed è già moltissimo.

di Giovanni Maria Bellu