Svolta di Lampedusa sui migranti, per Francesco è Dio che chiede di poter sbarcare
Sette anni dopo il primo viaggio dove gli raccontarono solo una parte delle sofferenze nei lager della Libia.

Papa Francesco non riesce a dimenticare l’impressione vissuta a Lampedusa nei confronti dei migranti nel suo primo viaggio apostolico che lo ha segnato per sempre. Ogni anno ricorda quel viaggio con una speciale celebrazione. Anche quest’anno ne ha parlato nella cappella di Santa Marta dove aveva celebrato nelle settimane centrali del coronavirus. Per lui è come testimoniare in favore della globalizzazione della solidarietà in un mondo dove prevale ancora la globalizzazione dell’indifferenza. E i poveri – primi tra loro i migranti – continuano a rappresentare un segno di contraddizione non soltanto nel dibattito politico e sociale delle democrazie occidentali, ma disturbano anche dentro la Chiesa cattolica dove si critica un papa troppo attento ai poveri e agli immigrati.
La disponibilità ad accoglierli piuttosto che a respingerli è una questione strisciante che divide fortemente Francesco dalle finte politiche della sicurezza e del sovranismo. In Italia la bandiera della politica del respingimento ha trovato in Matteo Salvini il suo alfiere. E come il leader della Lega è il propugnatore del respingere, Francesco resta fermo nel principio dell’accoglienza in forza della fraternità. Nella sua omelia si è spinto a dire che negli immigrati è “Dio che chiede di poter sbarcare”. Come dire no a Dio? Ci si chiede. Ma è una domanda che Salvini pare non si ponga. Nel giro elettorale prima a Barcellona Pozzo di Gotto, poi a Milazzo, il leader della Lega, riferendosi ad alcuni immigrati affacciati a un balcone ha ripetuto che la Sicilia “ha bisogno di turisti che pagano, non di turisti che vengono pagati per stare qua sul balcone a non fare un accidente". E rivolto ai contestatori del suo comizio, definiti "quelli di sinistra che ululano" ha detto loro: "Manteneteli voi. Prendete a carico vostro, tre a testa, quei signori che sono su quel balcone".
Nella sua omelia il papa ha invece rivelato un particolare inedito sul suo viaggio a Lampedusa, dove per puro caso, tornando a Roma, si era accorto gli avevano nascosto le vere sofferenze degli immigrati incontrati.
“Ricordo quel giorno, sette anni fa, proprio al Sud dell’Europa, in quell’isola – ha raccontato Francesco -. Alcuni mi raccontavano le proprie storie, quanto avevano sofferto per arrivare lì. E c’erano degli interpreti. Uno raccontava cose terribili nella sua lingua, e l’interprete sembrava tradurre bene; ma questo parlava tanto e la traduzione era breve. “Mah – pensai – si vede che questa lingua per esprimersi ha dei giri più lunghi”. Quando sono tornato a casa, il pomeriggio, nella reception, c’era una signora – pace alla sua anima, se n’è andata – che era figlia di etiopi. Capiva la lingua e aveva guardato alla tv l’incontro. E mi ha detto questo: “Senta, quello che il traduttore etiope Le ha detto non è nemmeno la quarta parte delle torture, delle sofferenze, che hanno vissuto loro”. Mi hanno dato la versione “distillata”. Questo succede oggi con la Libia: ci danno una versione “distillata”. La guerra sì è brutta, lo sappiamo, ma voi non immaginate l’inferno che si vive lì, in quei lager di detenzione. E questa gente veniva soltanto con la speranza e di attraversare il mare”.
Nessuno – ha ribadito il pontefice - è immune alla tentazione dell’indifferenza che, se assecondata, è peccato. “La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione, illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza”.
Se quanti si dicono cristiani vogliono la certezza di poter incontrare il volto di Dio lo possono “riconoscere nel volto dei poveri, degli ammalati, degli abbandonati e degli stranieri che Dio pone sul nostro cammino”. “È Lui che bussa alla nostra porta affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato, chiedendo di essere incontrato e assistito, chiedendo di poter sbarcare. E se avessimo ancora qualche dubbio”, ecco la sua parola chiara nel Vangelo di Matteo: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Questo monito “risulta oggi di bruciante attualità. Dovremmo usarlo tutti come punto fondamentale del nostro esame di coscienza. Penso alla Libia, ai campi di detenzione, agli abusi e alle violenze di cui sono vittime i migranti, ai viaggi della speranza, ai salvataggi e ai respingimenti. Tutto quello che avete fatto… l’avete fatto a me”.
Quel viaggio a Lampedusa non è ancora terminato poiché ha continuato ad animare e illuminare la vita del papa. Lo spiega il cardinale Francesco Montenegro, che allora, in qualità di vescovo di Agrigento e presidente della Caritas accompagnò il papa sull’isola.
Lampedusa va considerata come punto di partenza di “un pellegrinaggio di Francesco che da allora continua in tutto il mondo, per guardare con il cuore i migranti, come tutti gli scartati dalla globalizzazione dell’indifferenza. Da quel momento Papa Francesco ha preso la rincorsa e non si è fermato più. Le cose dette quel giorno a Lampedusa le ha continuate a dire con sempre più forza. E come se stesse facendo un viaggio in tutto il mondo cominciato sette anni fa dal porto di Lampedusa. Questo per me è il significato di quella visita. Nel pentagramma musicale c'è quella chiave che mi permette di riconoscere le note, ebbene è come se il Papa venendo nella nostra isola nel 2013 abbia fissato quel pentagramma e oggi resta fedele a quello spartito, a quelle note e continua a ripeterle. È vero che spesso sembra che le sue parole non abbiano effetto ma nel Vangelo leggiamo che il seme diventa albero piano piano”.
Oggi che gli sbarchi sulle coste siciliane proseguono, il cardinale Montenegro – intervistato da VaticanNews - denuncia una politica europea che continua a considerare emergenza una realtà strutturale come le migrazioni ma anche la propaganda di chi in tempo di pandemia tratta i migranti come untori.