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I 50 anni della Caritas italiana, la carità dello sviluppo integrale di Francesco

Nel mandato ai dirigenti e volontari per il futuro, il papa evoca le tre vie che hanno guidato i primi passi dei pionieri Nervo e Pasini. All’Angelus parla dell’amore che non giudica

Carlo Di Ciccodi Carlo Di Cicco   
I 50 anni della Caritas italiana, la carità dello sviluppo integrale di Francesco
Foto Ansa

Quando  per intuizione di Paolo VI la Caritas nacque 50 anni fa, non era scontato che riuscisse. Si trattava di promuovere nella Chiesa una rivoluzione culturale verso i poveri. Ora che si celebrano i suoi 50 anni, la Caritas non solo è una realtà operosa, ma con Francesco ha ricevuto un altro mandato pieno e confermativo della spinta originaria. “ Cari amici, - ha detto nell’udienza a dirigenti e volontari ricevuti in Vaticano per il cinquantesimo - ricordatevi, di queste tre vie e percorretele con gioia: partire dagli ultimi, custodire lo stile del Vangelo, sviluppare la creatività”.

Cinquant’anni che  sotto la spinta innovativa del concilio Vaticano II ha segnato la Chiesa passata dal fare elemosina a esigere giustizia; dal fare qualcosa per i poveri a lottare con loro, dal benedire i gagliardetti e le armi a optare per la pace e la nonviolenza come espressione di una società beata se è misericordiosa, fraterna, solidale. La pace è diventata un obiettivo che realizza insieme lo sviluppo integrale dell’uomo sulla Terra. E la Caritas lo ha fatto proprio. Sin dall’inizio ha sostenuto l’obiezione di coscienza al servizio militare e i volontari del servizio civile.

Quando monsignor Giovanni Nervo, fondatore del progetto voluto da Paolo VI, mosse i primi passi, misurò subito la difficoltà di realizzare un cambio di mentalità nella Chiesa sulla carità e la condizione dei poveri. Non poteva esserci papa più indovinato di Francesco per celebrare i 50 anni di una missione riuscita sebbene non finita. Lo rileva don Francesco Soddu, attuale direttore nazionale della Caritas evocando l’azione eccellente  di monsignor Nervo e don Giuseppe Pasini per consolidare la Caritas. “Le tre vie proposte dal papa per il futuro della Caritas – riflette Soddu – le vediamo incarnate in Nervo e Pasini che le hanno saputo esprimere modulandole nel cambiare del tempo. Li ho conosciuti e posso dire che hanno vissuto sino alla fine la via dei poveri e del Vangelo”. Proprio Giuseppe Pasini ha evidenziato come sia stato propulsiva per la Caritas la Chiesa dei poveri e per i poveri teorizzata da Francesco.

Prima che morisse, il papa lo chiamò al telefono per ringraziarlo dell’opera compiuta. Lo stesso Pasini confidò di aver scritto al papa  pochi mesi dopo la sua elezione ringraziandolo “per la 'rivoluzione' che sta promovendo nella Chiesa e nel mondo, incentrata sull’amore misericordioso di Dio, sulla pratica della carità cristiana, sulla scelta preferenziale dei poveri e sul dovere di eliminare le cause della povertà”.  Nel discorso per il cinquantesimo Francesco non ha deluso, esprimendo la piena fiducia nell’attualità della Caritas impegnata a rendere la comunità cristiana soggetto della carità nell’attuale cambiamento d’epoca in cui “le sfide e le difficoltà sono tante, sono sempre di più i volti dei poveri e le situazioni complesse sul territorio”.

“È bello – dice Francesco - allargare i sentieri della carità, sempre tenendo fisso lo sguardo sugli ultimi di ogni tempo. Allargare sì lo sguardo, ma partendo dagli occhi del povero che ho davanti. Lì si impara. Se noi non siamo capaci di guardare negli occhi i poveri, di guardarli negli occhi, di toccarli con un abbraccio, con la mano, non faremo nulla. È con i loro occhi che occorre guardare la realtà, perché guardando gli occhi dei poveri guardiamo la realtà in un modo differente da quello che viene nella nostra mentalità. La storia non si guarda dalla prospettiva dei vincenti, che la fanno apparire bella e perfetta, ma dalla prospettiva dei poveri, perché è la prospettiva di Gesù. Sono i poveri che mettono il dito nella piaga delle nostre contraddizioni e inquietano la nostra coscienza in modo salutare, invitandoci al cambiamento. E quando il nostro cuore, la nostra coscienza, guardando il povero, i poveri, non si inquieta, fermatevi…, dovremmo fermarci: qualcosa non funziona”.

C’è un pizzico di questa visione di Chiesa a servizio dei poveri che spiega anche le riforme avviate dal papa nella gestione economica della Curia Romana. Si pensi allo scandalo scoppiato sull’Obolo di san Pietro che si raccoglie in tutto il mondo nella festa del santo apostolo di cui il papa è successore. Agli scandali economici culminati con la vicenda del palazzo di Londra,  Francesco ha risposto con pari tempestività usata contro la pedofilia. L’Obolo è stato riportato al suo originario scopo: sostenere la carità del papa per la Chiesa universale.

Lo ha ben spiegato il Prefetto della Segreteria per l’Economia, il gesuita Juan Antonio Guerrero Alves, chiamato dal papa a gestire la delicata riforma. “La gente ha diritto di sapere come spendiamo il denaro” ha detto Guerrero, rivelando che “il Santo Padre mi ha chiesto di prestare particolare attenzione alla trasparenza”.

Nel 2019 la raccolta dell’Obolo è stata di 53,86 milioni di euro, così ripartiti: 43 milioni nel fondo generale dell’Obolo e 10,8 milioni con destinazioni particolari per situazioni di bisogno nella Chiesa e nel mondo. Nel 2020 la raccolta è stata di 44,1 milioni di euro così ripartiti: 30,3 milioni per l’Obolo generale e 13,8 milioni per destinazioni particolari.

Quando si parla di destinazione particolare o finalizzata, osserva il gesuita “si intende parlare di donazioni mirate, per esempio, per la costruzione di chiese nei Paesi del terzo mondo, servizi sociali come ospedali per bambini o sostegno alle scuole in zone di povertà, sostegno alla presenza di comunità religiose in zone difficili a causa della violenza o della povertà, formazione di operatori pastorali. I progetti sociali, in queste destinazioni, fanno la parte del leone. Se riceviamo una donazione con una finalità già definita e l’accettiamo rispettiamo la volontà del donatore”.

Sull’amore e la carità Francesco usa fare un discorso unitario che ripropone in circostanze diverse. Lo ha fatto parlando alla Caritas e all’Angelus odierno. “Lo stile di Dio – ha ricordato alla Caritas - è lo stile della prossimità, della compassione e della tenerezza”. Per questo non bisogna scoraggiarsi di fronte ai numeri crescenti di nuovi poveri e nuove povertà. Continuate a coltivare sogni di fraternità e ad essere segni di speranza” prestando attenzione specialmente ai giovani nel disagio. “Sono le vittime più fragili di questa epoca di cambiamento, ma anche i potenziali artefici di un cambiamento d’epoca. Sono loro i protagonisti dell’avvenire”. All’Angelus ha ricordato che la malattia più grande della vita  non è il cancro, la tubercolosi o la pandemia, ma “la mancanza di amore, è non riuscire ad amare”.

Pensiamo che “a renderci felici siano il successo e i soldi, ma l’amore non si compra, è gratuito. Ci rifugiamo nel virtuale, ma l’amore è concreto. Non ci accettiamo così come siamo e ci nascondiamo dietro i trucchi dell’esteriorità, ma l’amore non è apparenza. Cerchiamo soluzioni da maghi, da santoni, per poi trovarci senza soldi e senza pace”. Ma basta accorgersi degli altri, guardarsi attorno.

“Gesù ti chiede uno sguardo che non si fermi all’esteriorità, ma vada al cuore; uno sguardo non giudicante – finiamo di giudicare gli altri – Gesù ci chiede uno sguardo non giudicante, ma accogliente. Apriamo il nostro cuore per accogliere gli altri. Perché solo l’amore risana la vita, solo l’amore risana la vita.. E non giudicare, non giudicare la realtà personale, sociale, degli altri. Dio ama tutti! Non giudicare, lasciate vivere gli altri e cercate di avvicinarvi con amore.

Carlo Di Ciccodi Carlo Di Cicco   
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