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Capoterra sconvolta per Fausto. "Figlio di questa terra di emigrazione, vicini al dolore discreto della moglie"

Il dolore nel ricordo incredulo di amici e conoscenti del tecnico ucciso in Libia. L'anziano vicino di casa: "Riflettiamo: sicuri non sia anche colpa nostra?"

di Antonella Loi   
Capoterra sconvolta per Fausto. 'Figlio di questa terra di emigrazione, vicini al dolore discreto...

E' l'incredulità, insieme al forte vento di maestrale, a spazzare le strade di Capoterra. Nei bar e nelle case del piccolo paese del Sud Sardegna l'aria è già carica. Le poche persone corrono veloci, avvolte nei loro cappotti. Parlare di Fausto Piano, meccanico della società di costruzioni Bonatti, forse è prematuro. Nessuno ha ancora avuto il tempo di elaborare la notizia data solo poche ore fa: immagini di corpi uccisi in un blitz dell'Isis libico e la prova di due omicidi. Uno di questi è ormai certo che sia Fausto Piano, 60 anni, da alcuni decenni tra le file di quegli operai e tecnici specializzati che si muovono tra i vari impianti della Libia gestiti dall'Eni. Proprio lì, a luglio dello scorso anno, insieme a tre colleghi, l'uomo è stato rapito. Da allora nessuna notizia certa. Oggi sembra arrivare la conferma di qualcosa di più terribile.  

"La comunità credo sia molto affranta per questa notizia", ci dice don Sandro Zucca, sacerdote nella parrocchia più grande, conscio che in un piccolo paese certe tragedie diventano collettive. "La famiglia ha vissuto questi mesi del rapimento con dignità e compostezza - sostiene il parroco -. Una famiglia molto provata", aggiunge confermando che nelle prossime ore si recherà nella casa di via Carbonia a portare una parola di conforto. "Aspetterò il momento opportuno, le prime ore sono le più dure", dice con la lucidità di chi sa come vanno queste cose. "Con garbo e delicatezza porterò la vicinanza della comunità, come già facemmo con la fiaccolata subito dopo il rapimento", aggiunge. "Sappiamo che la paura li ha accompagnati per tutti questi mesi". Facile immaginarlo per chi, come don Zucca, aveva uno zio che lavorava tra l'Iraq e l'Iran. "Ma quelli erano tempi diversi: la guerra era finita e i lavoratori che partivano, dopo mesi o anni, tornavano". Lo spettro della disoccupazione a volte è lui a decidere. E oggi le guerre, il terrorismo e l'Isis, rendono l'immagine più complicata. 

Di Fausto è amico da sempre, invece, Pino Dessì. Consigliere comunale di Capoterra, ha un ricordo lucido e commosso. "Ci vedevamo ogni volta che tornava dalla Libia", racconta. L'ultima volta a luglio scorso, poco prima del rapimento. "E' stato il mio meccanico di sempre, era bravo ed è per questo che il lavoro nella Bonatti l'ha sempre avuto". Lo descrive come un professionista coraggioso, di quelli che sanno il fatto loro. "Fausto era consapevole della pericolosità del luogo dove lavorava - dice sicuro -, tanto che lui e i suoi colleghi giravano sempre scortati". Qualche mese fa La Repubblica aveva scritto dell'irritazione del governo "per la poca prudenza dell'Eni" nel mandare i suoi tecnici in zone pericolose "controllate dalla società petrolifera" ma "non coperti dall'ombrello dell'ambasciata". Il rapimento di Piano e dei suoi tre colleghi avvenne infatti il 20 luglio del 2015, al rientro dalla vacanza a casa, durante il trasporto dalla Tunisia verso l'impianto gasiero di Mellitah, 60 chilometri da Tripoli, da dove parte il gasdotto Greenstream. "Non ha dato segno di avere paura per la sua vita, anzi - spiega l'amico - parlava sempre di questi uomini della sicurezza che li accompagnavano ovunque". Fatto sta che l'Isis, presunto autore del rapimento e degli omicidi (ancora non confermati), qualche pensiero lo dava. "Sapeva bene dei tempi che corrono, ma penso si sentisse sicuro", assicura Dessì. Che aggiunge: "Mi creda non ce lo aspettavamo proprio, adesso resta la tristezza". 

"Un uomo coraggioso, come tanti qui a Capoterra", dice Luisa, 52enne vicina della famiglia Piano oggi chiusa tra le mura della propria casa e quelle più spesse del proprio dolore. "Fausto la prima volta partì per il deserto tanti anni fa, sacrifici per lavorare e regalare alla famiglia una vita più dignitosa. Ma in questo vicinato non è il solo", dice la donna spiegando che negli anni '60 e '70 erano tanti i giovani che partivano verso l'Arabia, l'Egitto, l'Iran. Tre, quattro mesi fuori poi tornavano e si costruivano la casa o si compravano un terreno. "Erano giovani, disposti al sacrificio anche se per poco tempo", aggiunge. Fausto invece continuò con quel lavoro. "Era un brav'uomo legato alla famiglia, anche perché... lo vede?", dice guardando verso la casa trenta metri più avanti. "La famiglia è riservata, discreta pure nel dolore di oggi, come in questi lunghi mesi di prigionia e silenzio". La signora Isabella, la moglie di Fausto, nonostante la vicinanza dei tre figli, Stefano, Giovanni e Maura, in questo periodo è sembrata a tutti "sopraffatta dal dolore". "I capelli diventati bianchi all'improvviso dopo il rapimento del marito: e su di lei, che si è sempre curata nell'aspetto, dice tutto", aggiunge un'altra donna sulla settantina che passa e si ferma alludendo ad un dolore che "non si può commentare". 

"Abbiamo mai pensato che la colpa può essere anche nostra?", dice invece Firmino Mameli, parlando attraverso il cancello verde di casa sua. Dall'alto dei suoi 85 anni il vicino di casa dice che Fausto lo ricorda bene. "Di cosa ci stupiamo? Io ero bambino quando gli italiani sono andati in marcia trionfale fascista a conquistare la Libia, seguendo l'idea folle di conquistare il mondo. Oggi cosa c'è di diverso?", dice immaginando rancori covati per più di settanta anni. "Già, l'Isis mi fa paura - aggiunge l'anziano - ma quelli, i libici, secondo me ricordano bene chi sono gli italiani". Come dire che nessuno si deve aspettare che qualcuno possa avere riguardo nei nostri confronti. "Ancora oggi siamo lì per prendere le loro risorse, i loro pozzi di petrolio. Questo dovrebbe farci riflettere, soprattutto oggi che è successo quello che è successo". 

di Antonella Loi   
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