Diritto all'oblio: passo indietro per chi vuole essere dimenticato sul web. Ecco la sentenza che fa discutere
La Corte di Giustizia ha escluso l'obbligo di rimozione dei dati al di fuori del territorio europeo
La sentenza del 24/09/2019 pronunciata dalla Corte di Giustizia in esito alla causa C-507/17 “Google LLC Vs CNIL” ha stabilito che il gestore di un motore di ricerca, quando accoglie una domanda di deindicizzazione in applicazione dell’art. 17 (rubricato “Diritto all’Oblio” ovvero il diritto alla cancellazione dei dati personali) del Regolamento UE 2016/679 (noto ai più come GDPR, la normativa europea in tema di tutela delle persone fisiche per il trattamento dei dati personali) “è tenuto ad effettuare tale deindicizzazione non in tutte le versioni del suo motore di ricerca, ma nelle versioni di tale motore corrispondenti a tutti gli Stati membri […] con misure che […] permettano effettivamente di impedire agli utenti di Internet, che effettuano una ricerca sulla base del nome dell’interessato a partire da uno degli Stati membri, di avere accesso, attraverso l’elenco dei risultati visualizzato in seguito a tale ricerca, ai link oggetto di tale domanda”. La pronuncia in commento rappresenta a mio avviso un preoccupante passo indietro nella tutela dei diritti dell’interessato. Principalmente per il contesto di riferimento: il web, ovvero un luogo virtuale dove con immediatezza e facile accesso si può fruire di una consistente e dettagliata mole di informazioni su un soggetto.
Un passo indietro nella tutela del diritto ad essere dimenticati
La Corte ha di fatto ristretto la portata della efficacia che dovrebbe garantire in termini assoluti il diritto dell’interessato ad essere dimenticato, non più associato ad informazioni presenti in rete e divenute nel tempo non più attuali e prive di quell’interesse pubblico che all’epoca della loro pubblicazione giustificava la loro diffusione e visibilità online. La contraddittorietà dell’orientamento assunto dalla Corte di Giustizia emerge in particolare dalla considerazione che nella nota sentenza “Google Spain” del 13/05/2014 (che di fatto stimolò il Legislatore europeo ad elevare al rango di norma comunitaria il Diritto all’Oblio) si stabilì che i diritti dell’interessato derivati dagli articoli 7 e 8 della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE (rispettivamente “Rispetto della vita privata e della vita familiare” e “Protezione dei dati di carattere personale”) “prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona”. Il tenore della sentenza lasciava legittimamente intendere una portata universale di tale diritto, slegata (trattandosi di web) da confini geografici.
Il potere dei motori di ricerca nella costruzione della reputazione
Si consideri che oggi la c.d. “first impression” passa da una semplice “googolata”, neologismo ormai introdotto ufficialmente nel vocabolario italiano. Il che dà l’inquietante misura di quanto i motori di ricerca (Google in particolare, considerando che detiene l’indiscusso primato di consultazione per la esaustività e qualità di contenuti fruibili)
condizionino le scelte nella nostra quotidianità, soprattutto in merito all’opinione che ci formiamo rispetto a qualcuno di cui non abbiamo una conoscenza diretta.
L’Oblio dovrebbe tradursi nel riconoscimento in termini assoluti del diritto a essere dimenticati in relazione a informazioni del nostro passato non più attuali/pertinenti (in considerazione di una evoluzione storica dei fatti) o rispetto alle quali sia venuto meno l’originario interesse pubblico, specie se particolarmente segnanti come quelle relative a trascorsi giudiziari.
Questi contenuti circolano in rete in modo incontrollato (spesso per anni e privi dei dovuti aggiornamenti) e sono visualizzati da una estesissima audience difficilmente calcolabile, in particolare se diffusi da autorevoli organi di informazione.
Si prenda il caso emblematico di un soggetto di cui siano pubblicate in rete informazioni circa il suo coinvolgimento in un procedimento penale. Immaginiamo poi che questo individuo, a distanza di qualche tempo dalla pubblicazione di cui
sopra, abbia concluso l’iter giudiziario magari con pronuncia a sé favorevole della quale non sia stato dato risalto mediatico.
Il soggetto (ad esempio un imprenditore con interessi rivolti anche a Paesi extra-UE) invoca il proprio legittimo diritto alla deindicizzazione in ragione della evoluzione giuridica della propria posizione, posto che oltre al tema della riservatezza si configura di riflesso quello della tutela della propria immagine privata e personale, attualmente danneggiata dalla presenza di contenuti non più pertinenti e lesivi per la propria reputazione.
Inibire l’accesso a tali informazioni secondo la logica della geolocalizzazione ovvero per la versione del motore Google “che corrisponde al luogo a partire dal quale si presume questi stia effettuando la ricerca” (paragrafo 42 – Causa C-507/17 – Google LLC Vs CNIL) vanifica o quanto meno riduce fortemente l’efficacia garantista dell’Oblio posto che di fatto, applicando l’interpretazione della Corte, l’imprenditore del caso fittizio sarà comunque perseguitato dall’ombra del proprio passato.
Effettuando ricerche sul suo nominativo tramite estensioni di Google extra-UE, le notizie sul procedimento penale sarebbero comunque accessibili e consultabili a prescindere dal fatto che, per i domini europei, lo stesso motore di ricerca abbia riconosciuto la sussistenza dell’Oblio.Mi trovo concorde, dunque, con l’opinione del Garante Privacy Antonello Soro che reputa la decisione della Corte una misura anacronistica penalizzante per i cittadini.
Oblio: un concetto globale
Questa interpretazione limitativa dell’applicazione extracomunitaria di un concetto globale quale la tutela della dignità e della reputazione (che ribadisco sono, come nel caso portato ad esempio, strettamente correlati alla riservatezza) concede un ulteriore pericoloso spazio di libertà decisionale ad una Company che già impone una propria autonomia discrezionale in ambito di scelta, circa la normativa applicabile per determinate richieste di rimozione.
Ad esempio, per richieste pertinenti violazioni del copyright il modulo messo a disposizione da Google fa esplicito riferimento alla legge americana del DMCA quale diritto applicabile, a prescindere quindi dal fatto che ad esempio il sito web che ospita il contenuto illecito sia registrato in un Paese al di fuori degli USA e quindi potenzialmente soggetto a discipline magari più garantiste o comunque stilate da un Legislatore nazionale, più attento al contesto di
riferimento.
La Corte ha pronunciato la sentenza in commento interpretando in senso letterale la normativa europea, ritenendo che in assenza di una scelta espressa del Legislatore di attribuire ai diritti sanciti per l’interessato una portata extraeuropea, si debba escludere un obbligo per i gestori di motori di ricerca (nel caso di specie Google) di deindicizzazione per le versioni nazionali esterne a quelle degli Stati membri della UE.
È mancato in questo caso quell’approccio dinamico/interpretativo (che volga cioè lo sguardo oltre il contesto normativo correlandolo alla peculiare realtà di riferimento, ovvero il mondo online) che aveva portato la Corte nel 2014 a pronunciare la nota sentenza Google Spain, cristallizzando il concetto di diritto alla deindicizzazione tramite una interpretazione normativa che andava oltre il senso letterale della norma.